XII domenica del Tempo Ordinario
(Gb 38, 8 – 11; Sal 106; 2Cor 5,14 – 17; Mc 4, 35 – 41)
Dopo tre giorni di opere di evangelizzazione, la stanchezza si avverte nel gruppo apostolico, per cui Gesù dice ai suoi discepoli di salire su una barca e passare all’altra riva del Mare di Galilea, probabilmente verso la costa orientale, abitata da stranieri e pagani, che impegnavano molto meno il gruppo di discepoli, spesso attorniati da folle di ebrei, nelle polemiche intra-giudaiche.
In realtà si tratta di un lago e non di un mare. Era chiamato anche lago di Tiberiade, dal nome del capoluogo della regione, città fatta costruire da Erode Antipa per rendere omaggio all’imperatore Tiberio, o anche “Lago di Genezaret”, cioè “lago della lira” perché la sua forma richiamava quello dell’antico strumento a corde. Trovandosi a 212 m sotto il livello del mare, ai piedi delle montagne, per il frequente scontro tra le correnti d’aria calda provenienti dal deserto e le correnti fredde dal nord scoppiano improvvise bufere, inevitabili per i naviganti: l’effetto è lo stesso di una violenta tempesta marina. Gli Ebrei erano pessimi marinai perché la costa rettilinea e sabbiosa su cui abitano tutt’ora non presenta approdi naturali. Generalmente la barca, durante le bufera, era travolta dalle onde e si riempiva d’acqua. Spesso affondava, ed è ciò che sta accadendo agli Apostoli. Presi dal panico, svegliano Gesù in modo offensivo: «Maestro, non t’importa che moriamo?» (Mc 4,38). Gesù si sveglia, solleva il capo dal cuscino, e si rivolge alla tempesta con parole che generalmente riserva al demonio: «“Taci, calmati!” Il vento cessò e si fece grande bonaccia» (Mc 4,39).
Subito gli Apostoli vengono rimproverati per la loro poca fede: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40). Tutti e dodici mancano di fede, temendo che Dio li tormenti inutilmente ponendoli in condizioni impossibili, ma soprattutto mancano di fiducia nell’amore di Gesù. Non dubitano della Sua capacità di dominare gli eventi cosmici, su cui esercita totale dominio – aveva già compiuto diversi miracoli -, quanto della bontà del Suo cuore. Ci possiamo ben immaginare quale reazione avrà avuto il Salvatore, che era disceso dal cielo per prendere un corpo di carne, coinvolgendosi in tutte le nostre miserie, all’udire un simile rimprovero! E’ come aprire una voragine sotto i piedi del nostro interlocutore! Il dialogo diventa impossibile.
Una verifica ottimale del nostro livello di spirito evangelico è osservare l’ambiente delle nostre frequentazioni. Gesù, da questo punto di vista, è ciò che tutti vorremmo essere. Amare il prossimo a prima vista, farsene carico, mostrare vera condivisione, avere i medesimi sentimenti, scaldare il cuore del prossimo anche quando un amico ti ha deluso, è indice di grande livello morale. Generalmente chi opera in questo modo è tutt’altro che solo. Di lui diciamo che è umanamente squisito, accoglie dimenticando le proprie difficoltà e prende una posizione pubblicamente. E’ l’autentica via della nobiltà d’animo e delle virtù umane e cristiane.
Gesù si è dichiarato Buon pastore, che non abbandona le pecore neanche innanzi ai lupi (Gv 10,11). Sempre si ferma davanti ad un peccatore che lo riconosce Figlio di Dio e domanda misericordia. Nel Getsemani chiede ai soldati di risparmiare i Dodici, essendo solo Lui il ricercato: «Se è me che cercate, lasciate che questi se ne vadano» (Gv 18,8). E’ un momento bellissimo della Passione del Cristo.
Volendo ora cogliere il senso profondo di questa parabola, la traversata del Mare di Galilea è uno sguardo sintetico sulla nostra vita, giustamente paragonata ad un mare che, improvvisamente, da calmo e pacifico diviene una tempesta ingovernabile dalle forze umane.
Il mare rappresenta il nostro ambiente sociale, familiare, amicale, lavorativo, ecclesiale, dove ti sei speso per amare il prossimo, nel quale fai festa nei momenti più belli. Può capitare un rovescio lavorativo o affettivo, un lutto, una malattia, un figlio che prende una brutta strada, il coniuge che ti delude. Dal Vangelo non vengono colpi di bacchetta magica e neanche ricette da applicare immediatamente, per evitare le burrasche. Gesù, però, promette di donarci un cuore che ascolta, che sa riconoscere la propria croce e la porta, come Lui, sul Calvario. Gesù ci assicura di saper superare le difficoltà, purché lo si chieda a Lui, con una coscienza sincera del bisogno che abbiamo di essere salvati dalle tempeste della vita.
San Paolo nell’epistola fa riferimento ad un problema che lo assillava: non sappiamo bene quale fosse, ma evidentemente aveva una grande importanza, tanto che chiese tre volte (in senso biblico significa infinite volte) che gli fosse tolta questa «spina nella carne» (2Cor 12,7). Quando Dio finalmente gli rispose, si sentì dire: «ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 9). Da quel giorno, Paolo fu un grande amante della croce, fino a vantarsi delle sue infermità, delle sue persecuzioni e delle angosce, al punto di esprimersi in questi termini: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,7 – 10).
I guai vengono spesso perché ce li cerchiamo, ma anche l’esistenza più cauta e sensibile, che ricerca le virtù e la volontà di Dio, non può evitarli. Quando vengono, per colpa o senza alcuna colpa, la fiducia in Dio, l’amore per la via maestra della Santa Croce donano uno sguardo profondo e ordinato, mitigano il dolore e invitano a seguire Gesù sul Calvario. Se veramente un problema è tuo, inevitabile, fuggire non servirebbe che a peggiorare le cose: sarebbe solo un velenoso tormento per sé e per il prossimo.
L’uomo nasce con la sua croce da portare. Non dimentichiamo, però, che Colui che fa la croce predispone anche le spalle del portatore e nessuno lo eguaglia nell’arte delle proporzioni. Ogni croce è unica e irripetibile, come l’anima che la deve abbracciare. Il messaggio del Vangelo è proprio esortare ad avere fiducia in Dio. Quel giorno, sul Lago di Galilea, ciò che salvò i discepoli dal naufragio fu il fatto che «avevano preso con sé Gesù nella barca» prima di iniziare la traversata. Questa è la garanzia migliore contro le tempeste della vita. Gesù, dentro la barca della nostra vita e della propria famiglia, è la fede, la preghiera, l’osservanza dei Comandamenti e il dominio della Santa Croce, che ha inserito in un ordine anche il male, affinché ognuno possa portare a termine la propria passione. Non aver paura della croce. Non vi è maestro più saggio e sapiente. Non vi è cattedra che formi meglio alla vita. L’uomo vale quanto ha saputo soffrire, in modo ordinato alla Salvezza. La scuola del dolore plasma le grandi anime e prepara alle più nobili imprese. Non esiste un uomo più fragile e inaffidabile di colui che non ha mai sofferto. Concludo con un famoso aneddoto, ricorrente nelle catechesi: un uomo fece un sogno. Vedeva due paia di orme che si stampavano sulla sabbia del deserto e comprendeva che un paio erano le orme dei suoi piedi e l’altro il segno dei piedi di Gesù, che gli camminava a fianco. A un certo punto, il secondo paio di orme scomparve e capì che questo avveniva proprio in corrispondenza di un momento difficile della sua vita. Allora si lamentò con Cristo, che lo aveva lasciato apparentemente solo nel momento della prova. «Ma io ero con te!», rispose Gesù. «Come è possibile, se sulla sabbia non c’erano che le orme di due piedi?». «Erano le mie – risponse Gesù –: in quei momenti ti avevo preso sulle mie spalle!».
Domenica, 20 giugno 2021
Beata Vergine Maria Consolatrice (La Consolata) Venerata a Torino