XIII domenica del Tempo Ordinario
(Sap 1, 13 – 15; 2, 23 – 24; Sal 29; 2Cor 8, 7.9.13 – 15; Mc 5, 21 – 43)
«Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza»(Sap 1,13 – 14).Questa stupenda dichiarazione del Libro della Sapienza, cronologicamente uno degli ultimi scritti dell’Antico Testamento, può essere la sigla spirituale che accompagna le letture odierne riguardanti, l’austero, ma salutare tema della morte. «Le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra..Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 1, 14;2, 23 – 24)
Il motivo della insopportabilità della morte ci è dato da queste parole. Essa non ci è naturale.
Nella nostra esperienza quotidiana, la vediamo come qualcosa di estraneo alla nostra natura, frutto della «invidia del diavolo»; per questo vi è in noi, sempre in atto, una lotta che impegna tutte le nostre forze a partire da quello che laicamente viene definito “buon umore”, che in realtà è la lotta del Regno di Dio contro lo scoraggiamento. Questo nostro insopprimibile rifiuto della morte è la prova migliore che noi non siamo fatti per essa e che non sarà essa ad avere l’ultima parola.
Questo è quanto viene espresso nei fatti da Gesù stesso, nel commovente momento della risurrezione della figlia di Giairo. Questo miracolo profetizza la stessa risurrezione di Cristo, che è la chiamata di tutti noi all’immortalità. Vi sono più scene che si succedono e si intrecciano rapidamente: siamo sulle rive del lago di Tiberiade, probabilmente a Cafarnao; Gesù è circondato dalla folla, quando Giairo, uomo in vista perché capo della sinagoga, quindi rappresentante ufficiale dei rabbini del luogo (che non erano affatto sempre d’accordo con le formule dottrinali e pragmatiche di Gesù di Nazareth), spinto dall’amore per la figlia e dalla stima riverente per il Messia, si accosta a Lui e si inginocchia ai suoi piedi. Era sicuramente un gesto di venerazione, nonostante l’interesse personale verso le capacità taumaturgiche di Gesù, affinché guarisse la figlia, fosse evidente, ma senz’altro aveva fiducia nella bontà dell’Uomo che non diceva mai di no a nessuno di coloro che avevano fede in lui, pertanto non si vergogna di umiliarsi davanti alla “plebe”. Gesù non fa alcuna eccezione e si china sui problemi di quello che potrebbe essere stato un suo avversario. E’ un caso pietoso e vuole risolverlo subito, anche perché il richiedente, che si presenta con tanta insistenza, dimostra d’avere una grande fede in lui.
Allora Cristo «andò con lui», seguito da una folla che gli si stringeva attorno, a cui interessava non perdere di vista il Maestro, taumaturgo e profeta, ritenendo una disgrazia perdere qualunque suo momento. La seconda scena che ci si presenta è lungo la strada. Una donna che soffriva di emorragia si avvicina di nascosto a Gesù per toccargli il mantello, e si ritrova guarita. Mentre Gesù stava parlando con lei, dalla casa di Giairo vennero a dire al rabbino: «Tua figlia è morta. Perché importuni ancora il maestro?». Gesù, che aveva udito tutto, dice al capo della sinagoga: «Non temere continua solo ad avere fede!».
L’emorroissa era affetta da 12 anni da emorragie, che oltre a farla soffrire fisicamente, le causavano, secondo la legge biblica (Lev 15,25), un’altra grave menomazione spirituale, quella dell’impurità rituale e sociale. La donna infrange l’obbligo legale e si accosta a Gesù per afferrargli il mantello. Il gesto significa simbolicamente “toccare” il centro della fede. Ritrova subito la salute e la speranza di poter condurre un’esistenza normale. Cristo, però, non accetta che tutto si esaurisca in un atto taumaturgico, vuole che da quella fiducia, forse un po’ magica, ne nasca una limpida fede: Egli è qui, infatti, per liberare l’uomo nella sua totalità! Egli cerca la donna che avanza con trepidazione e tremore innanzi a lui e si getta ai Suoi piedi, come per rendere omaggio a un essere divino (e in questo caso aveva davanti proprio Dio Figlio!). Qui scatta la guarigione, completa e più profonda, donata dalla Grazia. La donna ora non è solo guarita ma salvata, grazie alla sua fede. Gesù infatti, chiamandola teneramente «figlia», le dice: «La tua fede ti ha salvata, sii guarita dal tuo male!».
La donna è subito risucchiata dalla folla e scompare, restando viva nella storia solo per il ricordo della pagina evangelica. Più solenne la scena cruciale nella casa di Giairo. Sembra avvenuto l’irreparabile! Tanta gente piange e urla, come voleva la coreografia in Oriente, con le lamentatrici e i musicisti e le grida tipiche dei funerali orientali. Entrato nella casa, Gesù dice alla folla: «Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta ma dorme». Annotiamoci che la cultura rabbinica in sintesi affermava: «Tre sono le chiavi nelle mani di Dio che non possono essere consegnate nelle mani di nessun potente: quelle della pioggia, del grembo materno e della risurrezione dai morti». Quindi, cacciati fuori tutti, prese con sé i genitori della fanciulla, gli apostoli Pietro, Giacomo e il fratello Giovanni, ed entrò dove era la fanciulla. «Presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico alzati!” Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Tutti furono presi da grande stupore». Qui si manifesta il carattere “sublime” del racconto: cose straordinarie, sovraumane, raccontate con parole semplicissime e ordinarie, in modo che a parlare siano i fatti più che le parole. L’invito premuroso a dare del cibo alla bambina, che senz’altro non mangiava da giorni, aggiunge una luce di squisita umanità al miracolo del Salvatore. I Sacramenti sono per le persone umane, lo stesso dobbiamo affermare dei miracoli del Signore: sono per noi, per la nostra fede e salvezza, per alleviare le sofferenze dl prossimo, non certo per esibizionismo da parte di Cristo. Di questa umiltà sui miracoli, il grande maestro è san Pio da Pietrelcina.
Siamo qui innanzi ad un miracolo di guarigione. Tanti casi umani non si risolvono affatto in questo modo. Eppure Gesù tante volte ha pianto prima di attuare una guarigione, per esempio davanti alla vedova di Nain, quando risuscita il suo unico figlio, o presso l’amico Lazzaro. Ci viene ricordato così quanto detto sopra: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi». Dio soffre con noi, non si limita a guardare da lontano noi che soffriamo. La vera chiave per dare una risposta alla domanda formulata sopra, è unicamente la parola “Fede”. Quando Gesù raccomanda la fede, non intende solo la fede nei miracoli, quanto verso la Sua persona. Lui non ci deluderà mai, in qualunque modo ci conceda la Sua grazia. A volte Gesù risanava, a volte esorcizzava, tante volte semplicemente rincuorava, dando senso alla croce personale del malato. Tra la fede in qualcosa e in qualcuno, il Vangelo è molto chiaro nel dare somma importanza al secondo aspetto. Gesù, a Marta che piangeva sulla morte del fratello Lazzaro, risponde: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me , anche se muore, vivrà ; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo?». Il più grande miracolo è credere in Lui. Dopo questo, tutto diventa possibile. Di fronte a ciò, la risurrezione di Lazzaro e i pochi anni che l’amico di Gesù visse prima di morire di nuovo sono poca cosa. L’esperienza di tanti santi e credenti, conferma che la via maestra è quella della Santa Croce: la persona umana non vuole vivere di miracolismi, quanto nel mettere a frutto tutti i suoi talenti, che vanno un po’ situati fuori dalla nostra persona amando la croce.
La morte non è solo del corpo, ma anche del cuore, se si vive con prevalente scoraggiamento e tristezza cronica, e può esserlo anche dell’anima a causa del peccato. E’ triste vedere dei giovani senza entusiasmo, senza slanci e con poca voglia di vivere. L’emblema oggi è il così detto “single”: non desidera una famiglia, tantomeno la procreazione; manca di passione lavorativa e famigliare, che è la prima incarnazione del Cristianesimo. A questi giovani manca Dio e la sua grazia. Bisognerebbe gridargli, con la fede nella potenza di Cristo, «Talità kum». Gesù ordina a noi ora di dare da mangiare a questi giovani il miglior cibo della Fede, come disse a Giairo. Un delizioso racconto degli antichi Padri del deserto ci dice che, un giorno, un discepolo andò a trovare il suo maestro e gli disse: «Maestro, voglio trovare Dio». Il maestro sorrise. E siccome faceva molto caldo, invitò il giovane ad accompagnarlo a fare un bagno nel fiume. Il giovane si tuffò e il maestro fece altrettanto. Poi lo raggiunse e lo agguantò, tenendolo a viva forza sott’acqua. Il giovane si dibatté alcuni istanti, finché il maestro lo lasciò tornare a galla. Quindi gli chiese che cosa avesse più desiderato mentre si trovava sott’acqua. «L’aria», rispose il discepolo. «Desideri Dio allo stesso modo? », gli chiese il maestro. «Se lo desideri così, non mancherai di trovarlo. Ma se non hai in te questa sete ardentissima, a nulla ti gioveranno i tuoi sforzi e i tuoi libri. Non potrai trovare la fede, se non la desideri come l’aria per respirare».
Domenica, 27 giugno 2021