Marco Invernizzi, Cristianità n. 407 (2021)
Come si può spiegare alle persone che incontriamo oggi che la crisi, la vera crisi degli uomini contemporanei, sta dentro il loro cuore e nella loro mente, ed è molto più preoccupante e difficile da curare della crisi dovuta alla pandemia e di quella economico-sociale o politica?
Più o meno è la domanda che mi pongo tutte le mattine, senza trovare facili risposte. Infatti, non basta avere le idee chiare, bisogna saperle comunicare in modo che penetrino nel cuore del nostro prossimo. Impresa non facile, anzi difficilissima.
È indubbio che la crisi sia una crisi dell’uomo, dei suoi princìpi fondamentali, una crisi «antropologica» che poi si espande nell’economia, nella vita sociale e in quella politica. Ed è indubbio che questa crisi nasca dalla perdita del senso della trascendenza, cioè dal rifiuto di credere nell’esistenza di un Essere che orienti e dia senso alla vita. Solo Cristo rende comprensibile e piena la vita: solo comprendendo il significato del Suo sacrificio essa assume improvvisamente un senso e uno scopo. Questo atteggiamento ha alimentato tutte le civiltà — anche quelle che non avevano conosciuto Cristo — nelle quali l’Essere supremo, Dio, era il punto di riferimento.
Poi sono successe tante cose, numerose rivoluzioni hanno cambiato il modo di vivere e di pensare nel mondo occidentale. E qualcuno lo ha capito, il Magistero della Chiesa in primis. Chiesa che, dopo essersi opposta per secoli all’«epoca delle ideologie», alla modernità, ha cominciato a capire che non era più sufficiente opporsi e denunciare, ma bisognava ricostruire a partire da quello che era rimasto di cristiano nel mondo.
Siamo così al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) al quale dedichiamo in questo numero due autorevoli interventi, rispettivamente dell’arcivescovo mons. Agostino Marchetto, «il migliore ermeneuta del Concilio Vaticano II» (1), come ha detto di lui Papa Francesco, e di don Francesco Saverio Venuto, uno dei maggiori studiosi del Concilio. Ma perché proprio il Vaticano II?
Perché proprio il Papa santo che lo convocò, Giovanni XXIII (1958-1963), colse ed espresse questa convinzione nel discorso inaugurale dell’assise conciliare: «Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione» (2). Il problema non era la dottrina, ma il modo di comunicarla a un pubblico che non frequentava più le chiese, e lo avrebbe fatto in maniera ancora più massiccia con l’affermarsi di quella rivoluzione antropologica cominciata nella seconda metà del secolo XX e diffusasi nell’Europa occidentale a partire dal 1968.
Il quesito «che fare?» di leniniana memoria veniva posto alla Chiesa da quel diplomatico di lungo corso che sarebbe diventato il «Papa buono» e quindi canonizzato, ossia quanto di più lontano si possa immaginare rispetto al rivoluzionario di professione che portò per la prima volta il comunismo al potere nel mondo.
Il Vaticano II segnò l’inizio di una diversa modalità di comunicare la fede, ma venne interpretato da alcuni come una rottura radicale fra la Chiesa del Concilio di Trento (1545-1563) e una nuova e indefinita Chiesa, mentre altri, leggendolo anch’essi come rottura sebbene dall’angolatura opposta, spingeranno invece perché tornasse al passato. Entrambe le prospettive erano sbagliate, come spiegano i due autori nei rispettivi articoli.
Parlare del Concilio significa tornare alle origini di questa nuova fase del rapporto fra la Chiesa e il mondo, che permane tuttora. Significa cercare di spiegare al nostro prossimo che parlare (bene) del passato non significa ignorarne gli errori e anche il male e soprattutto non significa voler tornare a un’epoca ormai trascorsa. Così, parlare di Dante Alighieri (1265-1321) nel 700° anniversario della morte, come fa in questo numero Leonardo Gallotta, non vuol dire tornare al Medioevo ma difenderlo dalle aggressioni culturali a cui l’«epoca della fede» (secoli IV-XIV) è stata ingiustamente sottoposta.
Parlare di Medioevo significa tornare alle origini della crisi nella quale ancora oggi ci stiamo dibattendo. Con alcune importanti avvertenze. Quando parliamo di crisi epocali, come quella che inizia con la fine dell’epoca medioevale, descriviamo grandi scenari, ormai consolidati, e i nostri giudizi possono diventare sempre più profondi e precisi con il passare del tempo, ma non cambiano sostanzialmente. Quando invece parliamo di crisi particolari, come può essere la crisi di origine pandemica nella quale il mondo si dibatte esattamente da un anno, dobbiamo astenerci da dare giudizi definitivi per qualcosa che è in fieri, e invece tenere sempre presente quanto scrive il Compendio della dottrina sociale della Chiesa al n. 568: «Il fedele laico è chiamato a individuare, nelle concrete situazioni politiche, i passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori morali propri della vita sociale. Ciò esige un metodo di discernimento (cfr. Congregazione per l’Educazione Cattolica, Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, 8, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1988, pp. 13-14), personale e comunitario, articolato attorno ad alcuni punti nodali: la conoscenza delle situazioni, analizzate con l’aiuto delle scienze sociali e degli strumenti adeguati; la riflessione sistematica sulle realtà, alla luce del messaggio immutabile del Vangelo e dell’insegnamento sociale della Chiesa; l’individuazione delle scelte orientate a far evolvere in senso positivo la situazione presente. Dalla profondità dell’ascolto e dell’interpretazione della realtà possono nascere scelte operative concrete ed efficaci; ad esse, tuttavia, non si deve mai attribuire un valore assoluto, perché nessun problema può essere risolto in modo definitivo: “la fede non ha mai preteso di imbrigliare in un rigido schema i contenuti socio-politici, consapevole che la dimensione storica in cui l’uomo vive impone di verificare la presenza di situazioni non perfette e spesso rapidamente mutevoli” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica (24 novembre 2002), 7, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, p. 16)».
L’Italia conosce da alcune settimane una delle sue frequenti crisi politiche, che ha portato alla nascita del nuovo governo affidato al dottor Mario Draghi. Accolto favorevolmente dalla maggioranza dei partiti politici, con l’eccezione di Fratelli d’Italia, e da un consenso ampio e trasversale dei media e probabilmente, secondo i sondaggi, dell’opinione pubblica, il governo Draghi ha concentrato su di sé molte aspettative. Riuscirà nell’impresa di portare fuori il Paese dall’emergenza dovuta alla pandemia con un’adeguata organizzazione delle vaccinazioni? Riuscirà a spendere bene i fondi che l’Unione Europea ha previsto di destinare al nostro Paese nei prossimi sei anni? Lo vedremo nei prossimi mesi. Ogni giudizio a priori rischia di essere imprudente e approssimativo. Un cattolico, e un cittadino, si deve augurare che un governo nascente riesca a risolvere i due problemi più urgenti che incombono sull’Italia, emergenze senza la soluzione delle quali il bene comune non potrebbe essere realizzato in alcun modo.
Vi è soltanto un altro tema che mi pare decisivo e che va affrontato con urgenza: l’«inverno demografico», espressione ripresa dal Santo Padre nell’Angelus del 7 febbraio: «In Italia le nascite sono calate e il futuro è in pericolo. Prendiamo questa preoccupazione e cerchiamo di fare in modo che questo inverno demografico finisca e fiorisca una nuova primavera di bambini e bambine».
Un governo composto da qualsiasi maggioranza politica non può non tenere conto del fatto che il drammatico calo delle nascite rappresenta il problema decisivo per la sopravvivenza della nazione italiana. Si tratta di un problema anzitutto culturale, che presuppone una inversione di mentalità, una vera e propria conversione della società. Ma le politiche economiche a favore o meno della natalità possono incidere anche in modo significativo e possono soprattutto attirare l’attenzione del popolo sul tema fondamentale del futuro.
Sottovalutarlo o non tenerne conto, da parte di un qualsiasi governo, significherebbe condannare un Paese alla morte, progressiva ma inesorabile.
Note:
(1) Cfr. Francesco, Mons. Agostino Marchetto, «il miglior ermeneuta del Concilio Vaticano II», in Cristianità, anno XLII, n. 371, gennaio-marzo 2014, p. 67.
(2) Giovanni XXIII, Discorso «Gaudet mater Ecclesia» nella solenne apertura del concilio (Sessione I), dell’11-10-1962.