XXIII domenica del Tempo ordinario
(Is 35, 4 – 7a; Sal 145; Gc 2, 1 – 5; Mc 7, 31 – 37)
Il brano evangelico ci riferisce una bella guarigione operata da Gesù: «E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà”, cioè: “Apriti!” E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente».
Questi atti miracolosi non sono compiuti banalmente come un colpo di bacchetta magica. Notiamo quel sospiro di Gesù, che gli sfugge prima del contatto con gli orecchi del sordo, segno chiaro di partecipazione profonda al disagio del malato. Gesù si fa carico dei nostri mali: «Egli ha preso le nostre infermità e si addossato le nostre malattie» (Mt 8,17). Davanti a un sordo noi spesso facciamo dell’ironia, Gesù invece prova solidarietà e compassione.
Siamo innanzi ad un grande insegnamento. Non è in nostro potere dire ai sordi che abbiamo vicino: «Effatà, apriti!», cioè ridare miracolosamente l’udito. Possiamo però sicuramente educarci al rispetto, alla delicatezza nel trattare con chi è affetto da questo problema. Quella di fare ironia o di scherzare sulla sordità altrui dev’essere un’abitudine antica quanto il mondo, perché già nell’Antico Testamento troviamo questo monito: «Non disprezzerai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco» (Lv 19,14).
Così si esprimeva una persona affetta da sordità: «Un sordo non fa neanche compassione, anzi da fastidio, stizza, perché costringe a ripetere più volte le stesse cose, e così si crea il distacco, l’emarginazione e quel tremendo “Hai capito, sì o no?”, che provoca molta timidezza». Il sordo è spesso isolato dal mondo delle persone. L’accorgimento più elementare è parlare chiaramente, con tono sostenuto, di fronte, in modo che si veda il movimento delle labbra e il gesto, cose che danno ausilio a chi non sente bene. Se è necessario ripetere, farlo con dolcezza, senza dare segni di stizza, e non con un tono ancora più basso della voce. Evitare di parlare con altri sottovoce in presenza del sordo, o di ammiccare dietro le spalle. La sordità porta di per sé una persona a sospettare che si parli male di lei e che la si prenda in giro. Quando un sordo comprende male, non enfatizziamo l’errore, provocando ilarità.
Sono delicatezze umane e cristiane, quanto mai attuali. Chi non ha nella cerchia dei famigliari e conoscenti qualche persona affetta, in misura più o meno grave, da questo impedimento, specie tra gli anziani? Chi di noi non perde l’udito, col passare degli anni?
In questo Vangelo viene riportata la parola “Effetà”, che è aramaica; l’aramaico era la lingua parlata da Gesù, o, meglio, il suo dialetto. E’ una delle tre parole, insieme ad Abbà e Amen, che vengono definite ipsissima vox, cioè la voce effettiva di Gesù. Sono praticamente tre reliquie che restano di Lui.
La Chiesa primitiva intese che non si trattava solo di sordità fisica, ma anche di quella spirituale, ragion per cui questa parola entrò subitamente nel rituale del Battesimo. Subito dopo aver battezzato un bambino, il sacerdote gli tocca gli orecchi e le labbra, dicendo: «Effetà, apriti!», intendendo dire: apriti all’ascolto della parola di Dio, alla fede, alla lode, alla vita. Il Vangelo di oggi riguarda soprattutto i sordi udenti, cioè coloro che al pari degli idoli hanno orecchi e non odono, hanno occhi, ma non vedono (Sal 115,5 – 6), infatti Gesù compie questo miracolo traendo in disparte il sordo. Quando Gesù cerca un rapporto così personale, non si tratta solo di un male fisico, ma parla al cuore, probabilmente di un peccatore, anche perché questo sordomuto riprende a parlare correttamente subito dopo la parola di Gesù. Non era un male presente dalla nascita. Gesù scioglie il gelo del cuore di un peccatore, che comunque si presta all’ascolto: anche il cuore ha i suoi orecchi per udire e i suoi occhi per vedere.
Effatà è un grido che Cristo lancia ad ogni uomo e a tutto l’uomo, non solo alle orecchie. Dal giorno del nostro Battesimo, non cesserà mai di risuonare in noi. Prima verità nel cuore, è salda come una casa sulla roccia. Rinnova, allora, tutte le mattine la tua fede, chiedendo al Signore che la sua Verità sia presente in te come pane del cuore e ti accompagni tutta la giornata. Le tue parole e le tue azioni siano come una freccia, lanciata da una santa intenzione, che nasce da un cuore che riflette e cerca Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la sua forza. Apriti! È il più bell’invito alla vita, a partire dall’ascolto della Parola di Dio, che la Chiesa ci trasmette. San Paolo afferma che «la fede nasce dall’ascolto della parola della predicazione» (Rm 10,17). Non c’è fede possibile senza questo ascolto profondo del cuore. Quante persone si giustificano dicendo che la fede è un dono… Sicuramente lo è! E’ il più grande dono che Dio possa farci. Ma quanti hanno udito in cuor loro un richiamo profondo alle sorgenti più pure della vita e, ciononostante, non hanno mai detto con Samuele: «parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,10)?
Spesso giova chiudere gli occhi e gli orecchi del corpo, per aprire quelli dell’anima. E’ possibile rinforzare la vita del cuore e farne una fortezza inespugnabile, dedita ad un ascolto che sempre risolve la nostra vita nella verità. Si dia il giusto primato alla preghiera, alla contemplazione e alla volontà di Dio, come ci ha mostrato il miglior uomo fra i nati di donna, quel san Giovanni Battista che amava preparare l’anima al sempre puntuale consiglio del Salvatore.
Bello e santo è oggi essere sordi, per santa prudenza, cioè scegliere, con virtuoso senso critico, cosa ascoltare e cosa tralasciare. Il martire sant’Ignazio di Antiochia (35-107) raccomandava ai suoi fedeli: «siate sordi quando qualcuno vi parla male di Gesù Cristo». Potremmo anche dire siate sordi quando qualcuno vi parla male del prossimo, o quando qualcuno vi adula con guadagni poco chiari. Indispensabile oggi chiudere le orecchie al fiume delle sciocchezze mass-mediatiche, volgari, oscene e false.
A volte siamo chiamati ad imitare Cristo sulla croce, quando ci offendono o parlano male di noi, lasciando cadere quelle parole insulse nel vuoto, anziché ribattere colpo su colpo. «Io, come un sordo, non ascolto e come un muto non apro la bocca; sono come un uomo che non sente e non risponde» (Sal 38,14). Tante divergenze amare possono essere evitate in famiglia, tra amici, in parrocchia, lasciando che certe frasi false cadano da sole, soprattutto quando sono pronunciate in momenti di tensione. Diventiamo quindi sordi per sentire meglio.
Nel mondo informatico odierno è una necessità fisiologica, se non vuoi affogare nell’orgia del chiasso e dell’immagine, proposte a ritmo vertiginoso. Un giorno Mosè disse al popolo: «fa silenzio e ascolta, Israele» (Dt 27,9). Potremmo dire oggi: «fa silenzio, cristiano, e ascolta!». Il brano evangelico di oggi termina con questo elogio entusiasta che le folle fanno di Gesù: «ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti».
Dopo queste riflessioni, potremmo anche esprimere un elogio della “santa sordità”, considerando che nelle virtù spirituali vi è anche una capacità di discernere, un santo spirito critico che vien da un altrettanto autentico buon senso spirituale: «il Vangelo porta a fare bene ogni cosa: fa sentire quelli che non odono, quando è bene ascoltare, e rende sordi quelli che sentono, quando è bene non udire» (padre Raniero Cantalamessa).
Domenica, 5 settembre 2021