Nella vulgata corrente il termine «medioevo» è usato a sproposito per denunciare ogni situazione segnata da immobilismo, degrado e chiusura. Uno sguardo all’arte e all’architettura medievali ci mostrano invece un’insospettata vitalità…
di Stefano Chiappalone
Ogniqualvolta i media riportano agghiaccianti notizie su regimi tirannici, società immobili e situazioni al limite dell’umano, non manca mai qualche sedicente intellettuale che provvede a bollare il tutto come “medioevo”, “medievale”, in ossequio a una vulgata fin troppo diffusa che ha preteso di inglobare un’intera epoca sotto l’indistinta etichetta di “secoli bui”. Accade per via della tendenza prospettica della mente umana che «vede in primo luogo ciò che è più vicino, quindi il passato recente, e immagina spontaneamente tutti i secoli anteriori simili a quel passato recente […]. La fama negativa del medioevo dipende molto da questa deformazione e molto dalla “crisi” del Trecento: fu arbitrario per gli umanisti com’è arbitrario oggi immaginare i secoli VIII-XIII del tutto simili allo scenario apocalittico determinato dalle pestilenze e dalle carestie del Trecento»1. Secoli che, a scanso di equivoci, avevano certamente ombre, né più né meno dei nostri tempi che pur si considerano a priori progrediti.
Una volta evaporata la stizza e raccolte le braccia inevitabilmente cadute in terra, sono solito compiere due operazioni catartiche, la prima delle quali è una ricerca affannosa nel vasto materiale iconografico che quei secoli ci hanno trasmesso. Grazie a quel vasto museo virtuale offerto dalla rete, mi avventuro tra affreschi, statue e codici miniati. Non solo tra i capolavori e i soggetti più celebri e celebrati ma soprattutto tra le immagini che tramandano la “storia spicciola”, i frammenti di vita quotidiana medievale. In campagna o in città scorgo uomini e donne intenti alle fatiche e alle gioie più comuni, non di rado insieme; in altri casi li vedo suonare, danzare e banchettare. Mi soffermo quindi su un dettaglio apparentemente marginale: il vestiario. Tutt’altro che soffocante, volti e capigliature sono ben visibili e i colori sgargianti. E, ci crediate o meno, nel medioevo non c’era neanche una donna col burka!
Passando dalla vita dei singoli a quella delle società – e alla seconda operazione catartica – ripercorro con la mente le città medievali tornando infine – con crescente nostalgia – a Pisa, la città che mi accolse da studente. Quella piazza, che non a caso è detta “dei Miracoli”, basta da sola a smentire la leggenda nera di una civiltà chiusa e immobile. Testimonia invece una città in crescita e in pieno dinamismo, che si avventura sul mar Tirreno per ragioni sia belliche che commerciali. Gli stessi rapporti con il mondo islamico, non privi di scambi culturali, risentono di questa duplicità fin dentro la stessa cattedrale. La sua costruzione si colloca tra il saccheggio di Palermo (allora musulmana) nel 1063, il cui bottino contribuì a finanziarla, e la spedizione contro i pirati arabi delle Baleari, tra il 1113 e il 1115. Allo stesso tempo essa risente di influssi bizantini e moreschi, fin negli archi all’interno e nella cupola ellittica, conferendo un tocco orientale al romanico pisano, segno di una città tutt’altro che rintanata tra le sue mura. Mura, peraltro, che all’epoca della consacrazione avvenuta nel 1118 per mano di papa Gelasio II (1118-1119), non includevano ancora la nuova cattedrale. A questo provvide la nuova cerchia muraria eretta nel 1155, chiaro segno di una città in espansione, come la stessa cattedrale che di lì a poco fu ampliata. Siamo, del resto, nel periodo caratterizzato da quella che il medievista pisano Marco Tangheroni (1946-2004) ha definito «rivoluzione commerciale»2, che aveva fatto di Pisa una potenza marittima. Quello stesso dinamismo riecheggia nell’epigrafe di Buscheto (XI-XII sec.), il primo architetto della cattedrale, i cui marchingegni permettevano a dieci fanciulle di sollevare quei pesanti marmi che a malapena potevano venir smossi da mille buoi o portati dalle navi sul mare («Quod vix mille bonum possent iuga iuncta movere et quod vix potuit per mare ferre ratis. Busketi nisu, quod erat mirabile visu, dena puellarum turba levabat onus»).
La repubblica marinara iniziò il suo declino con la sconfitta navale della Meloria inflitta dai genovesi nel 1284 (paradossalmente il 6 agosto, «lo dì di santo Sisto», che le cronache annotano come data di svariate vittorie). Pochi anni prima era stato portato a termine il Camposanto e l’opera del duomo non cessò i suoi lavori neanche nel secolo XIV, mentre si innalzavano la massiccia mole del battistero a ovest, di fronte alla facciata, e ça va sans dire, il campanile, ovvero la celebre torre pendente. Così pure all’interno del Camposanto, intorno alle sepolture dei pisani illustri fino al XV secolo si avvicendarono numerosi artisti, lasciando capolavori tra cui il ciclo incentrato sul Trionfo della Morte, del pittore fiorentino Buonamico Buffalmacco (1290-1340). Persino nel “terribile” Trecento tra quelle mura si dipingeva un significativo capitolo della storia dell’arte, tale da giustificare la definizione di «Cappella Sistina di Pisa»3. Meriterà un’apposita trattazione a suo tempo, ma per ora torniamo all’esterno a goderci quel gioco di marmi che sintetizza e simboleggia un’intera civiltà anche nei due itinerari che vi si delineano. Il primo da ovest a est, dal battistero all’abside, è quello dei battezzati che volgevano le spalle al luogo del tramonto e si dirigevano verso l’alba, secondo la simbologia che ha influenzato l’architettura sacra fino a tempi recenti. Tuttavia, esso suggerisce anche un secondo e inverso itinerario, da est a ovest, dal resto della Toscana al Mediterraneo e oltre, in un intreccio di avventure oltremare, di desideri nobili e meno nobili, di viaggi reali e leggendari che alimentano nell’uomo medievale il desiderio di scoperta, poiché, come ricordava Tangheroni, «[…] siamo “orientati” verso l’Oriente, ma siamo proiettati verso l’Occidente, che è poi l’esperienza storica dell’Europa moderna. E, forse non ci si riflette, la radice di Occidente – tramonto o “occaso” – è la stessa di “occasione” e potrei dire, giocando sulle parole, che l’Occidente è stato la grande occasione della nostra civiltà europea»4. Almeno finché non abbiamo perso l’orientamento…
Sabato, 9 luglio 2021
Note
1 Giuseppe Sergi, L’idea di Medioevo. Tra senso comune e pratica storica, Donzelli, Roma 1998, p. 11.
2 Cfr. Marco Tangheroni, Commercio e navigazione nel medioevo, Laterza, Roma-Bari 1996)
3 L’espressione è dello storico dell’arte Antonio Paolucci, che ha guidato i lavori di restauro degli affreschi: «Con questo restauro di enorme valore artistico e la restituzione del Camposanto Monumentale ai pisani si chiude il conto con la seconda guerra mondiale. La scena del Giudizio universale è la Cappella Sistina di Pisa» (Paolucci salva la “Sistina” di Pisa, Ansa, 19 novembre 2016).
4 Marco Tangheroni, Cristianità, modernità, Rivoluzione. Appunti di uno storico fra “mestiere” e impegno civico-culturale, SugarCo, Milano 2009, p. 148.