In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,13 – 17)
L’uomo ha orrore della croce. Non è difficile comprenderne le ragioni. Gli Apostoli opposero molta resistenza all’idea di Gesù come Servo sofferente, insultato, flagellato e crocifisso. La loro fede ha vacillato e hanno abbandonato il Maestro. E’ duro per l’uomo il linguaggio della sofferenza, della sconfitta e dell’umiliazione. La carne, che porta con sé il veleno del serpente, vuole l’affermazione di sé, la soddisfazione dei suoi bisogni, il consenso degli uomini, il successo e la gloria del mondo. Ognuno desidera e persegue queste cose nel suo piccolo. La croce è ciò che ognuno aborrisce di più. E’ il discorso di fronte a cui il mondo si tura gli orecchi e scuote la testa. Anche noi cristiani corriamo continuamente il rischio di non afferrare più il vero significato della croce: essa è divenuta per noi un oggetto di culto, non più la scelta di vita del Figlio di Dio.
C’è qualcuno più grande di Dio? Nessuno! Eppure il Figlio di Dio, uguale al Padre nella divinità, ha umiliato sé stesso «facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». E’ un’obbedienza che non rifiuta nulla della volontà del Padre. Spesso è difficile anche accettare di essere solo una creatura. Nelle vene umane scorre il veleno che gli ha iniettato il serpente antico, quando ha sibilato negli orecchi dei progenitori le insinuanti parole: «Dio sa che quando ne mangereste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio» (Gn 3,4).
Chi non accetta i suoi limiti, rifiuta la sottomissione a una legge superiore e fa dell’affermazione di sé la regola del suo vivere. Gesù non elimina il dolore dal mondo, ma toglie l’insignificanza della croce, dell’impegno quotidiano, della tribolazione. Cristo non solo dà senso alla croce, ma prima di tutto l’ha vissuta Lui stesso e, successivamente, ci ha coinvolti, perché noi fossimo intimamente uniti a Lui: in Cristo siamo una cosa sola. Lo sforzo quotidiano è quello di volgere lo sguardo verso di Lui, castigando la nostra presuntuosa autosufficienza, conformare il cuore a Gesù, combattere i propri peccati. Così diveniamo pietre vive dell’edificio che è la Chiesa, da cui vengono “opere” che portano a compimento il creato che Dio ci ha affidato. Lavoro e famiglia richiedono amore per la croce: affidati alla Grazia che viene dal falegname di Nazareth, vengono immancabilmente portate a compimento con un sovrappiù, bello e gustoso, che i nostri sforzi non meritavano. Non serve cercare tribolazioni straordinarie: le prevede già l’ordinario della nostra vita quotidiana, secondo la Sapienza di Dio. Santa è l’anima che le riconosce e le afferra, con la decisione con cui l’uomo della croce portò il suo legno sul Calvario.