Da Avvenire del 16/09/2021
«Noi siamo un po’ come la Sicilia per dimensioni e popolazione, siamo una Sicilia senza mare nel cuore dell’Europa». Scherza don Ivan Šulik, con il suo italiano fluente lascito degli anni di studio a Roma e dei suoi frequenti contatti con l’Italia. Teologo morale di formazione, 51 anni, don Šulik è oggi responsabile del principale gruppo editoriale cattolico del suo Paese, quello che fa capo alla Società di Sant’Adalberto, dal nome del secondo vescovo di Praga che fu martirizzato alla fine del X secolo. È una realtà ecclesiale che fu fondata nel 1870 da Andrej Radlinský, sacerdote e intellettuale che si spese per diffondere la lingua slovacca e affermare l’identità del suo popolo. Oggi la Società di Sant’Adalberto è composta da 90mila fedeli laici che versano annualmente una piccola quota e così sostengono una organizzazione che collabora strettamente con vescovi e diocesi, ma con una sua indipendenza. Pubblica libri liturgici, di cultura religiosa, edita il principale settimanale cattolico slovacco, Katolícke noviny, una rivista di teologia e gestisce una catena di 23 librerie.
Con don Šulik parliamo della visita del Papa avvenuta in un contesto particolare: uno dei Paesi più cattolici del continente, la Slovacchia, che vive fianco a fianco con uno dei Paesi più secolarizzati dello stesso continente, la Repubblica Ceca. E che per un buon pezzo di strada sono stati un unico Paese… come mai una differenza così grande nel sentimento religioso? «La risposta me la diede un amico prete ceco a cui feci la stessa domanda nel 1991 – dice don Šulik – quando ci fu il primo censimento dopo il crollo del regime comunista. C’era ancora la Cecoslovacchia. In quella che oggi è la Slovacchia più dell’80% si dichiarò cattolico, in quella che oggi è la Repubblica Ceca grosso modo il 20%. “Vedi”, mi disse l’amico, “lo slovacco una volta battezzato dirà sempre che è cattolico, anche se metterà il piede in chiesa solo per il suo matrimonio. Il ceco, invece, alla domanda sulla sua fede risponde così: “Non sono cattolico, sono solo battezzato”. Il punto è che il popolo slovacco ha un grande attaccamento alla Chiesa, come fattore identitario, anche se poi magari non pratica. La frequenza alla Messa domenicale in Slovacchia non supera il 20%. Questo vuol dire che c’è molto da fare e, per andare alla visita del Papa, vuol dire che Francesco ha centrato il segno nel discorso tenuto a vescovi, sacerdoti e religiosi, nella Cattedrale di Bratislava». Perché ha citato libertà, creatività e dialogo come tratti che la Chiesa deve avere, chiediamo? «Sì, e prima per il forte richiamo, che in lui è un classico, a uscire. “La Chiesa non è un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza” ha detto. Noi non dobbiamo semplicemente aspettare che le persone salgano al castello, dobbiamo andare a cercarle. Quello del ripiegamento su di sé, di una certa chiusura dello sguardo, è una tentazione reale per la Chiesa in Slovacchia». Nello stesso discorso, aggiungiamo, il Papa ha anche ricordato quello che la Chiesa slovacca ha passato sotto il comunismo, l’esempio eroico del cardinale Korec e altri. «Perché è vero – commenta don Šulik – abbiamo sofferto molto. Potrei raccontarle cose della mia vita, quando cercarono di impedirmi di fare il Seminario, verso la fine del liceo, o quando mio padre perse il suo posto di insegnante per aver voluto dare un’educazione cattolica ai suoi figli, alla luce del sole, e dovette andare a lavorare in fabbrica. Se parla con un cattolico slovacco di una certa età si accorgerà di quanti ricordi di questo genere ci sono. Ci siamo soffermati a lungo su questo passato, era giusto farlo. Però a volte anche troppo. È ora di guardare avanti, al futuro, alla missione».