Michele Rinaldi, Cristianità n. 408 (2021)
«[…] verrà un tempo in cui due amici che hanno la stessa convinzione e che si propongono lo stesso scopo, non s’intenderanno su nulla» (1)
1. Premessa
La ricezione dei testi magisteriali è oggi al centro di un dibattito che coinvolge sempre più direttamente i fedeli e ciò suggerisce la necessità di una riflessione che possa far emergere capisaldi chiari e auspicabilmente condivisi. Si tratta, infatti, di un tema tutt’altro che ozioso, dal momento che sulla modalità di ricezione del Magistero ecclesiale — pontificio, conciliare, episcopale — si sono sviluppate dinamiche di grande rilievo non solo per specialisti, ma anche presumibilmente per gruppi di fedeli sempre più rilevanti.
Che sia un tema non marginale e neppure senza precedenti lo possiamo ricavare anche solo da pochi riferimenti storici, fra i tanti possibili:
- —la descrizione che il dottore della Chiesa san Basilio (330-379) fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea (325), che egli paragona a una battaglia navale in una notte di tempesta, dicendo fra l’altro: «il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede» (2);
- —la risposta, riportata da Papa Benedetto XVI (2005-2013), di san Gregorio Nazianzeno (329 ca-390) all’imperatore Flavio Teodosio Augusto (347-395) che lo invitava al primo concilio di Costantinopoli (381): «no non vengo, conosco queste cose, so che da questi concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo» (3);
- —la leggenda del beato Pio IX (1846-1878) Papa «liberale», riferita immancabilmente in ogni programma di storia del Risorgimento nelle scuole primarie e secondarie italiane almeno fino agli anni 1980;
- —il problema della partecipazione agli utili dell’impresa da parte dei lavoratori evocato nell’enciclica Quadragesimo anno (4), a proposito del quale il venerabile Pio XII (1939-1958) ritenne di dover reinterpretare Pio XI in questi termini: «Si parla oggi molto di una riforma della struttura dell’impresa, e coloro che la promuovono pensano in primo luogo a modificazioni giuridiche fra quanti ne sono membri, siano essi imprenditori, o dipendenti incorporati nell’impresa in virtù del contratto di lavoro. Alla Nostra considerazione non potevano però sfuggire le tendenze che in tali movimenti si infiltrano, le quali non applicano — come si dice — le incontestabili norme del diritto naturale alle mutate condizioni del tempo, ma semplicemente le escludono. Perciò nei Nostri discorsi del 7 maggio 1949 alla Unione Internazionale delle Associazioni Patronali Cattoliche e del 3 giugno 1950 al Congresso Internazionale di Studi Sociali Ci siamo opposti a quelle tendenze, non già, veramente, per favorire gl’interessi materiali di un gruppo piuttosto che di un altro, ma per assicurare la sincerità e la tranquillità di coscienza a tutti coloro cui questi problemi si riferiscono. Né potevamo ignorare le alterazioni, con cui si svisavano le parole di alta saggezza del Nostro glorioso Predecessore Pio XI; dando il peso e l’importanza di un programma sociale della Chiesa, nel nostro tempo, ad una osservazione del tutto accessoria intorno alle eventuali modificazioni giuridiche nei rapporti fra i lavoratori soggetti del contratto di lavoro e l’altra parte contraente» (5).
2. Un importante precedente
Nella storia di Alleanza Cattolica un importante confronto con questo problema è avvenuto riguardo alla dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), pubblicata il 7 dicembre 1965, sul tema del diritto della persona umana e delle comunità alla libertà sociale e civile in materia di religione.
Da questo confronto è scaturito un percorso che ha visto una prima fase di radicale incomprensione del testo conciliare, sulla scorta di reazioni fortemente negative di ambienti cattolici significativi e in particolare dell’arcivescovo mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), considerato fino agli anni 1970 un riferimento importante per l’associazione per le questioni ecclesiali (6). Nel corso degli anni successivi, anche grazie al progressivo affermarsi di una ermeneutica che più tardi sarebbe stata definita della «riforma nella continuità» (7), Alleanza Cattolica arrivò a comprendere la profonda importanza del documento: questo, oltre a indicare obiettivi molto chiari, identificava anche in modo autorevole un mutamento essenziale della situazione storica, contrassegnato dal venir meno della Cristianità d’Occidente e dall’affermarsi di contesti nei quali l’indispensabile precondizione della missione era proprio la libertà religiosa, il cui significato autentico era quello di «immunità» da intromissioni esterne — in primis dello Stato moderno — rispetto alla coscienza di ciascuno, cui andava garantita la possibilità di aderire alla verità senza essere impedito da condizioni coercitive.
Questa lettura fu espressa con completezza da Giovanni Cantoni a partire dalla pubblicazione del testo Libertà religiosa, «sette» e «diritto di persecuzione» (8) e successivamente utilizzata costantemente come punto di partenza per l’apostolato associativo sul tema, riconosciuto con certezza come uno dei più rilevanti e bisognosi di sviluppo e di promozione dei nostri tempi. Fu un percorso faticoso, perché l’interpretazione secondo cui la Dignitatis humanae promuoveva l’indifferentismo religioso e la sostanziale uguaglianza di ogni posizione in materia — e quindi la conseguente falsità di ogni prospettiva religiosa in quanto sostenitrice di essere portatrice di una verità oggettiva — non fu affermata solo da nemici dell’ortodossia cattolica, ma fu recepita come fondata da ambienti cattolici che si trovarono nelle strettoie di un quesito sintetizzabile in questi termini: la libertà religiosa presuppone che tutte le religioni siano uguali, il che è inaccettabile per un cattolico, la Dignitatis humanae la promuove, quindi è in contrasto con l’ortodossia; l’alternativa è essere cattolici o accettare il documento conciliare.
Quello che oggi pare un ragionamento evidentemente scorretto, nel corso della «battaglia nella notte» efficacemente evocata da san Basilio, ha però costituito la premessa di uno scisma e la fonte di confusione e incertezza (9). Di ciò ha fatto stato in modo chiarissimo Cantoni, in un testo pubblicato nel 2000, eloquentemente intitolato «Cum Petro». «sub Petro», verso la civiltà cristiana nel terzo millennio, descrivendo con precisione anche gli aspetti «psicologici» del percorso che Alleanza Cattolica aveva compiuto: «[…] Papa Paolo VI (1963-1978) nel discorso di chiusura dell’assise ecumenica […] ne suggerisce la chiave di lettura spirituale, quindi per relazione a Dio, e, trattandosi di un fatto storico, all’azione di Dio nella storia, cioè alla Provvidenza. “L’antica storia del Samaritano — afferma il Pontefice — è stata il paradigma della spiritualità del Concilio”. Dunque, secondo l’interpretazione autorevolmente proposta, nel piano di Dio e nella lettura autentica del suo vicario il Concilio Ecumenico Vaticano II non è stato un inginocchiarsi della Chiesa davanti al mondo moderno, ma il piegarsi, persino l’inginocchiarsi della Chiesa — questo sì — al capezzale di un mondo morente per accompagnarne l’agonia, a esso però sopravvivendo per continuare la propria missione. Non questo, però, hanno di volta in volta suggerito e insinuato, durante il suo svolgimento e — soprattutto — nel tragico periodo postconciliare, e continuano a suggerire e a insinuare lettori maliziosi o tanto ingenui quanto superficiali, il cui trionfo contingente ma pluriennale non ha mancato di provare duramente, di far soffrire dolorosamente e di amareggiare profondamente tanti, fra i quali rubrico me stesso e, sotto mia responsabilità, i miei maestri, nonché di disorientare molti — evidentemente i “più fedeli” fra i fedeli — e, purtroppo, d’indurre anche taluni, per certo inopportunamente, a mettere in questione “il bambino” a fronte del lerciume dell’“acqua del bagno”» (10).
L’esperienza dolorosa, che ha portato, fra l’altro, Alleanza Cattolica a interrompere nel 1981 i rapporti e la collaborazione con mons. Lefebvre e la sua Fraternità Sacerdotale San Pio X — ben sette anni prima della formalizzazione dello scisma, avvenuta nel 1988 (11) —, ha permesso un accostamento sempre più sereno e fiducioso al Magistero, caratterizzato dalla sua imprescindibile collocazione nell’ambito della tradizione e dalla rinnovata fede nel fatto che la Chiesa docente non può insegnare l’errore.
Si tratta di un passaggio fondamentale che ci ha consentito di non doverci interrogare sull’ortodossia di ogni nuovo testo magisteriale e di poterci dedicare con mente serena e accostamento da discepolo a uno sforzo di comprensione umile e tenace, sostenuto dalla preghiera e da un uso efficace della ragione. Questa conquista avrebbe potuto ancora essere oggetto di dubbio o di contestazione se non fosse stata confermata — quasi un decennio dopo la pubblicazione del citato testo sulla libertà religiosa — in modo definitivo e inequivocabile da Papa Benedetto XVI che, affrontando il tema dell’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, ma fornendo una chiave di lettura che ha caratteristiche di generalità e di permanenza, ha detto: «Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o — come diremmo oggi — dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino» (12).
Ciò che prima, riguardo ai documenti conciliari, poteva essere giudicato liberamente — anche se non correttamente, perché l’assistenza dello Spirito alla Chiesa docente non è proprio una novità, e non lo è neppure la certezza che le porte degli inferi non prevarranno contro di essa — come l’opera di manipolazione di un gruppo di laici ostinati, dal 22 dicembre 2005 è stato indossato ed espresso in forma esplicita e non equivoca da un Pontefice nell’esercizio del suo ministero. Questo dato di fatto costituisce un punto di svolta che non può e non deve essere relegato nel deposito di vecchi ricordi e gratificazioni — anche se la gioia profonda provata in quel momento è incancellabilmente impressa nella memoria di chi l’ha vissuto —, ma costituisce uno strumento operativo il cui uso non è più facoltativo.
A proposito del Magistero conciliare, da allora in poi, certi dubbi, certi interrogativi e certi malumori, che vadano al di là di quelli pure ammessi da Papa Benedetto XVI, non sono più ragionevoli per chiunque si professi cattolico. Oggi non ci si può più chiedere in quale modo si debba leggere un documento conciliare: l’unico modo è quello di leggerlo alla luce della Tradizione, nella certezza che non può esserci una frattura, ma vi può essere solo «riforma nella continuità». Non ha quindi alcun senso accostare il Magistero conciliare tenendo presente l’ipotesi che possa anche essere erroneo, magari osservando criticamente che l’interpretazione più agevole è proprio in questo senso. Si tratta di un passaggio da saltare, perché porta solo a fare il gioco del nemico.
3. Nuove questioni, problemi antichi
L’importanza del percorso sopra disegnato è particolarmente attuale perché riemerge in forme più o meno larvate in alcuni ambiti del mondo cattolico l’atteggiamento, analogo a quello relativo ai documenti conciliari, di ascoltare il regnante Pontefice con l’intento di valutarne l’ortodossia.
Da cattolici si deve cercare di capire cosa vuole dire il Pontefice, senza pretendere che dia spiegazioni o giustificazioni o che si sottoponga al nostro giudizio. La trappola comunicativa dei nostri giorni potrebbe essere descritta in questo modo: quando il Papa parla, il mainstream lo rilancia e lo distorce, approfittando talvolta di talune ambiguità del testo, e accredita l’idea che muti la dottrina; alcuni cattolici meno avvertiti sotto questo aspetto cadono nella trappola e restano turbati; a questo punto il mainstream rilancia i loro dubbi e il caos è realizzato. Alla base dell’efficacia di questo meccanismo devastante sta anche il fatto che vi è una tendenza impropria a leggere ogni parola del Pontefice come se fosse detta pensando alle dinamiche italiane, mentre il suo orizzonte non sono solo l’Italia e le sue vicende politiche contingenti — pur di grande rilevanza per chi vi agisce come operaio della nuova evangelizzazione — e nemmeno l’Europa, ma l’intero pianeta, e probabilmente con particolare riferimento alle aree dove il cattolicesimo è in espansione, come l’Africa e l’Asia.
4. Fratelli tutti, un’enciclica contro la proprietà privata?
Per fare un solo esempio, molte voci si sono alzate per esaltare o biasimare la modalità in cui è accostato il concetto di proprietà privata nell’enciclica «Fratelli tutti» sulla fraternità e l’amicizia sociale partendo dal comune assunto che il Pontefice la condanni o comunque la svaluti fortemente. Al di là di quanto ci si può ragionevolmente domandare leggendo il documento alla luce del magistero precedente (13), basterebbe accostarsi al testo da discepoli per vedere che in essa il Papa condanna un modo di intendere la proprietà privata che si potrebbe definire «rivoluzionario», considerandola «diritto illimitato di usare ed abusare» dei beni, contrapposto al concetto di proprietà dell’ancien régime, ampiamente limitato da servitù di ogni genere, possibile traduzione nella storia di quella destinazione universale dei beni che emerge dalla dottrina cattolica e dal diritto naturale. La proprietà di cui si parla nel documento è evidentemente quella connessa allo strapotere dei colossi finanziari, che tendono a sostituirsi alla politica o ad asservirla; cosa, peraltro, ampiamente prefigurata nelle analisi della scuola cattolica contro-rivoluzionaria.
Lo scenario in cui si muove il Pontefice, come enunciato esplicitamente al n. 172 dell’enciclica, è quello di un mondo dove la politica, e i popoli che da essa dovrebbero essere rappresentati, sono schiacciati da poteri finanziari soverchianti; quindi l’alternativa non è Stato comunista collettivista oppure proprietà privata e sana imprenditoria, ma finanza transnazionale aggressiva o strutture politiche — ultimo baluardo dopo la disintermediazione selvaggia realizzatasi a partire dalla Rivoluzione francese fino ad oggi —, che servono la comunità e difendono i singoli, sempre più poveri e quindi sempre meno liberi. In questo scenario, quindi, la sottolineatura dei limiti della proprietà privata e l’enfasi sulla destinazione universale dei beni è una indicazione chiara e per nulla bisognosa di giustificazioni. Basti ricordare che già Papa Pio XII aveva detto: «Ogni uomo, quale vivente dotato di ragione, ha infatti dalla natura il diritto fondamentale di usare dei beni materiali della terra, pur essendo lasciato alla volontà umana e alle forme giuridiche dei popoli di regolarne più particolarmente la pratica attuazione. Tale diritto individuale non può essere in nessun modo soppresso, neppure da altri diritti certi e pacifici sui beni materiali. Senza dubbio l’ordine naturale, derivante da Dio, richiede anche la proprietà privata e il libero reciproco commercio dei beni con scambi e donazioni, come pure la funzione regolatrice del potere pubblico su entrambi questi istituti. Tutto ciò nondimeno rimane subordinato allo scopo naturale dei beni materiali, e non potrebbe rendersi indipendente dal diritto primo e fondamentale, che a tutti ne concede l’uso; ma piuttosto deve servire a farne possibile l’attuazione in conformità con il suo scopo. Così solo si potrà e si dovrà ottenere che proprietà e uso dei beni materiali portino alla società pace feconda e consistenza vitale, non già costituiscano condizioni precarie, generatrici di lotte e gelosie, e abbandonate in balia dello spietato giuoco della forza e della debolezza» (14).
5. Dal «testo» al «gesto»
A margine di queste considerazioni può essere utile spostare l’attenzione anche su aspetti meno formali dei documenti, come dichiarazioni occasionali, comportamenti e gesti dei Pontefici.
Al riguardo è interessante il fatto che la pubblicazione dell’enciclica contro il nazional-socialismo Mit brennender Sorge, il 14 marzo 1937, fu tra le cause che portarono a una violenta repressione contro il clero e i fedeli cattolici in Germania, e questa sembra fondatamente essere stata la ragione per la quale Pio XI aveva esitato a lungo ad intervenire. Non si può escludere che la finalità, mescolata come tutte le cose umane a difetti e fragilità, delle Ostpolitik di ogni tempo possa essere probabilmente quella di non provocare ulteriori sofferenze a comunità già fortemente oppresse, anche se il silenzio della Santa Sede può anche essere fonte di disagio per le stesse comunità. Si tratta di scelte che riguardano i mezzi per raggiungere un certo obiettivo, in questo caso il bene di una comunità sottoposta a un regime totalitario. Come tali sono scelte discutibili ma devono essere decise dalle legittime autorità. Ai fedeli cattolici è richiesto di distinguere adeguatamente fra attività diplomatica della Santa Sede come Stato con personalità giuridica di diritto internazionale da una parte, e dottrina cattolica e impegno politico dei laici dall’altra parte; evitando così di gridare a tutto il mondo — perché quando si lamentano del Pontefice sono ripresi anche, come visto sopra, dai media dominanti — che la non reiterazione di condanne, già esistenti e mai revocate, significa che la Chiesa ha mutato la morale o la sua precedente condanna. Papa Pio XII, che ha ammesso urbi et orbi di non aver voluto chiamare alla crociata nel 1956 per i fatti di Ungheria (15), non è per questo certamente sospettabile di essere stato comunista o di aver voluto revocare la scomunica.
6. «[…] non siamo nella cristianità, non più!»
Le considerazioni sopra riportate permettono di affrontare un’altra importante premessa la cui erroneità pare sfuggire ad alcuni critici del Papa. Il punto di vista del regnante Pontefice si può collocare, senza deformare né i suoi scritti, né i suoi gesti, nel contesto di fine della civiltà cristiana d’Occidente formalmente dichiarato da san Giovanni Paolo II (1978-2005) nel 1995 ai vescovi della Sicilia (16), ed ulteriormente espresso da Papa Francesco nel discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2019 con la formula «[…] non siamo nella cristianità, non più!» (17).
In questa nuova condizione, per esempio, una donna che ha abortito o si dice favorevole all’aborto è molto probabile che non sia tanto un soggetto profondamente ideologizzato che combatte per l’emancipazione dalla morale naturale e cristiana, quanto piuttosto la vittima di una congiura del silenzio e del «politicamente corretto», in una fase che si può correttamente definire di «meccanica della Rivoluzione» (18); allo stesso modo un divorziato di oggi non è probabilmente un apostata che ha rifiutato la famiglia indissolubile in odio alla natura o alla morale cattolica, ricevuta ampiamente e precisamente nella formazione catechetica giovanile da Chiesa, famiglia e scuola, ma l’erede di una tragica prassi ormai comune e radicata nel costume. Per questa ragione l’accostamento solo polemico all’apostolato è ragionevolmente sostituibile con la cura del samaritano verso la vittima dei ladroni — ferma restando la denuncia dell’esistenza di «ladroni» organizzati, che operano su scala planetaria —, anche se il samaritano deve comunque coltivare un costante atteggiamento militante nel combattere il mondo, la carne e il diavolo; distinguendo però, con prudenza e saggezza, il peccato dal peccatore e il «rivoluzionario» dal «rivoluzionato» (19). Alle categorie dei rivoluzionari di diversa velocità e dei semi-contro-rivoluzionari individuate in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, oggi andrebbe a mio avviso aggiunta una nuova figura, quella di chi è nato dopo la fine della Cristianità (20).
Come indicazione del diverso modo di operare opportuno nella Cristianità e dopo la sua fine, per prepararne una nuova, si potrebbero usare due passaggi del Vangelo apparentemente incompatibili fra loro: Matteo 12,30: «Chi non è con me, è contro di me» e, al contrario, Marco 9,40: «Chi non è contro di noi è per noi» e Luca 9,50: «chi non è contro di voi, è per voi». La prima espressione si può applicare a un mondo in cui la Cristianità esiste in modo riconoscibile e vitale, dove ciascuno può sceglierla o addirittura ha la fortuna di esserci nato, e la corrispondente responsabilità gravissima di rifiutarla o perfino di operare per abbatterla, nel caso lo facesse; in questo contesto è ragionevole guardare a «ciò che divide» per difendere la città degli uomini dove Cristo regna — pur con tutti i limiti che non possono mancare in hac lacrimarum valle. Le seconde sono invece applicabili a un mondo senza Cristianità, a una fase di nuova evangelizzazione, quella che stiamo vivendo. Se si vogliono avvicinare, da missionari, soggetti appartenenti a una società come la nostra, «coriandolare» o «liquida», nella migliore delle ipotesi con qualche residuo «coagulo» di naturalità (21), la priorità non può che essere l’annuncio della Buona Novella, perché questi «nuovi pagani» (22)possano divenire pietre dell’erigenda Cristianità del terzo millennio. Tentare invece di accusarli di mali che hanno ereditato, e dei quali spesso sono le prime vittime, produce molto probabilmente il loro allontanamento. Tutto ciò ovviamente va fatto senza cambiare il numero e il contenuto dei comandamenti, ma sicuramente mutando toni e forme della comunicazione, pena la totale inefficacia del messaggio, ossia il fallimento dell’Annuncio. Per questo nella fase post-Cristianità è necessario guardare prioritariamente, anche se non esclusivamente, a «ciò che unisce», fosse anche solo la comune natura umana.
Tornando in conclusione alla «piccola» storia di Alleanza Cattolica, non resta che rendere grazie a Cristo Re e a Maria Regina, ma anche alle sofferenze, all’umiltà e alla fede del nostro fondatore e di chi con lui ha combattuto la «battaglia nella notte», perché l’incantesimo diabolico della falsa alternativa dell’ermeneutica della discontinuità e della rottura è stato infranto, facendo sì che, anche chi si è unito successivamente alla famiglia spirituale di Alleanza Cattolica, abbia potuto ascoltare da cattolico le illuminanti e risolutive parole di Benedetto XVI del 2005 e continuare quindi a cantare, insieme a tutta la Chiesa, ad majorem Dei gloriam et socialem:
«A Te veniamo, Angelico Pastore,
«In Te vediamo il mite Redentore,
«Erede Santo di vera e santa Fede;
«Conforto e vanto a chi combatte e crede,
«Non prevarranno la forza ed il terrore,
«Ma regneranno la Verità, l’Amore» (23).
Note:
1) Joseph De Maistre (1753-1821), Verso la penultima rivelazione della verità nello spirito delle masse, trad. it. in Cristianità, anno XLI, n. 367, gennaio-marzo 2013, pp. 63-64 (p. 63).
2) San Basilio Magno, De Spiritu Sancto, XXX, 77, in PG 32, 213C.
3) Cit. in Benedetto XVI (2005-2013), Incontro con il clero delle diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso ad Auronzo di Cadore, del 24-7-2007.
4) Cfr. Pio XI (1922-1939), Lettera enciclica «Quadragesimo anno» sulla ricostruzione dell’ordine sociale nel XL anniversario della «Rerum novarum», del 15-5-1931, nn. 58-60.
5) Pio XII, Allocuzione alla Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (U.C.I.D.), del 31-1-1952.
6) Cfr. Giovanni Cantoni (1938-2020), «Tu es Petrus», in Cristianità, anno XVI, n. 158-160, giugno-luglio-agosto 1988, pp. 3-6 e 19 (p. 6).
7) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005.
8) Cfr. G. Cantoni e Massimo Introvigne, Libertà religiosa, «sette» e «diritto di persecuzione», Cristianità, Piacenza 1996.
9) Fra i tanti riferimenti cfr. G. Cantoni, Dal Concilio Ecumenico Vaticano II al secondo Sinodo straordinario, in Cristianità, anno XIII, n. 126, ottobre 1985, pp. 3-4.
10) Idem, «Cum Petro», «sub Petro», verso la civiltà cristiana nel terzo millennio, in Cristianità, anno XXVIII, n. 300, luglio-agosto 2000, pp. 3-4 e 29-30 (p. 30); ora in Idem, Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, Milano 2008, pp. 51-58 (pp. 57-58).
11) Cfr. Idem, «Tu es Petrus», in Cristianità, anno XVI, n. 158-160, giugno-luglio-agosto 1988, pp. 3-6 e 19 (p. 6).
12) Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana In occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005.
13) Cfr. Domenico Airoma, «Fratelli tutti»: una riflessione sociale, in Cristianità, anno XLVIII, n. 405, settembre-ottobre 2020 pp. 21-28.
14) Pio XII, Radiomessaggio nel 50° anniversario della «Rerum novarum», del 1°-6-1941. Nello stesso documento il Pontefice ricorda che «dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s’insinua anche il bene o il male nelle anime, vale a dire, se gli uomini chiamati tutti ad essere vivificati dalla grazia di Cristo, nelle terrene contingenze del corso della vita respirino il sano e vivido alito della verità e della virtù morale o il bacillo morboso e spesso letale dell’errore della depravazione».
15) Cfr. Idem, Radiomessaggio ai fedeli e ai popoli del mondo intero, del 23-12-1956.
16) Cfr. san Giovanni Paolo II, Discorso alla Chiesa italiana per la celebrazione del III Convegno Ecclesiale, del 23-11-1995; cfr. il commento di G. Cantoni, «Cum Petro» «sub Petro», verso la civiltà cristiana nel terzo millennio, cit., pp. 51-53.
17) Francesco, Discorso alla Curia romana per gli auguri di Natale, del 21-12-2019.
18) Cfr. Augustin Cochin (1876-1916), Le società di pensiero e la Rivoluzione francese. Meccanica del processo rivoluzionario, trad. it., con un saggio introduttivo di Andrea Sciffo, il Cerchio-iniziative editoriali, Rimini 2008.
19) Cfr., per il termine, Ignazio Cantoni, La Casa Europa: vivere da contro-rivoluzionari in un’Europa che muore, in Cristianità, anno XLIV, n. 381, luglio-settembre 2016, pp. 43-54 (pp. 47-48); e D. Airoma, «Fermo immagine». Per non dimenticare, dopo la pandemia, in Cristianità, anno XLVIII, n. 403, maggio-giugno 2020, pp. 3-19 (passim, soprattutto pp. 4 e 8).
20) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, presentazione e cura di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2009, cap. VI, par. 5, lett. A.
21) San Giovanni Paolo II afferma, sempre a Palermo nel 1995: «In realtà tali valori, che pur scaturiscono dalla legge morale inscritta nel cuore di ogni uomo, ben difficilmente si mantengono, nel vissuto quotidiano, nella cultura e nella società, quando vien meno o si indebolisce la radice della fede in Dio e in Gesù Cristo» (Discorso alla Chiesa italiana per la celebrazione del III Convegno Ecclesiale, del 23-11-1995).
22) Cfr. Joseph Ratzinger, I nuovi pagani e la Chiesa, in Cristianità, anno XLV, n. 384, marzo-aprile 2017, pp. 29-40.
23) Inno pontificio, composto da mons. Antonio Allegra (1905-1969), nel sito web <https://www.vatican.va/news_services/press/documentazione/documents/sp_ss_scv/inno/inno_scv_testo_it.html#Versione originale italiana del testo composto da Mons. Antonio Allegra>, consultato il 30-4-2021.