di Michele Brambilla
«Betlemme: il nome» del borgo nel quale nacque Gesù Cristo, nell’antica lingua ebraica «significa “casa del pane”». La sera del 24 dicembre Papa Francesco inizia con questa breve nota lessicale un’omelia della Messa nella Notte di Natale piena di riferimenti eucaristici. «In questa “casa” il Signore dà oggi appuntamento all’umanità. Egli sa che abbiamo bisogno di cibo per vivere. Ma sa anche che i nutrimenti del mondo non saziano il cuore»: c’è bisogno di un cibo “altro”, che venga dall’Alto.
Il Papa ricorda che «nella Scrittura, il peccato originale dell’umanità è associato proprio col prendere cibo: “prese del frutto e ne mangiò”, dice il libro della Genesi (Gn 3,6)» descrivendo l’atto con il quale Adamo ed Eva disobbedirono a Dio. Il loro non era semplice mangiare, ma vera e propria “cupido”, brama di possedere e di onnipotenza. «Avere, riempirsi di cose pare a tanti il senso della vita. Un’insaziabile ingordigia attraversa la storia umana, fino ai paradossi di oggi, quando pochi banchettano lautamente e troppi non hanno pane per vivere».
L’uomo postmoderno è schiavo delle proprie passioni disordinate, ma il Bambino di Betlemme viene anche per lui e anche a lui indica un altro modo di mangiare, un pasto inaudito con ingredienti inediti. «Betlemme è la svolta per cambiare il corso della storia. Lì Dio, nella casa del pane, nasce in una mangiatoia. Come a dirci: eccomi a voi, come vostro cibo. Non prende, offre da mangiare; non dà qualcosa, ma sé stesso. A Betlemme scopriamo che Dio non è qualcuno che prende la vita, ma Colui che dona la vita» senza togliere spazio alla libertà umana. «All’uomo, abituato dalle origini a prendere e mangiare, Gesù comincia a dire: “Prendete, mangiate. Questo è il mio corpo” (Mt 26,26). Il corpicino del Bambino di Betlemme lancia un nuovo modello di vita: non divorare e accaparrare, ma condividere e donare. Dio si fa piccolo per essere nostro cibo».
Lo fa tutti giorni nel Sacrificio eucaristico. «Nutrendoci di Lui, Pane di vita, possiamo rinascere nell’amore e spezzare la spirale dell’avidità e dell’ingordigia. Dalla “casa del pane”, Gesù riporta l’uomo a casa, perché diventi familiare del suo Dio e fratello del suo prossimo. Davanti alla mangiatoia, capiamo che ad alimentare la vita non sono i beni, ma l’amore; non la voracità, ma la carità; non l’abbondanza da ostentare, ma la semplicità da custodire».
Il nostro sguardo si solleva allora sui fratelli. Sono davvero tante le lingue nelle quali il Papa, affacciato dalla loggia centrale della basilica di S. Pietro, formula gli auguri natalizi prima di impartire la benedizione Urbi et Orbi, così come sono tante le situazioni di crisi che il Pontefice elenca nelle sue parole: il conflitto israelo-palestinese, la Siria non ancora del tutto pacificata, lo Yemen, il continente africano «dove milioni di persone sono rifugiate o sfollate e necessitano di assistenza umanitaria e di sicurezza alimentare», la Corea del Nord, le mai dimenticate tensioni in Venezuela, Ucraina e Nicaragua. Ci sono luoghi nei quali le armi materiali tacciono, ma non quelle ideologiche, in particolare «desidero ricordare i popoli che subiscono colonizzazioni ideologiche, culturali ed economiche vedendo lacerata la loro libertà e la loro identità» in una guerra più sottile, ma non meno letale di quella portata con i cannoni.