Di Lorenzo Cantoni, professore all’Università della Svizzera Italiana, da Cooperazione del 04/01/2022
No. In un Tweet: No. (Non ancora, spero mai). Per evitarlo ci vuole un esercizio quotidiano di libertà di pensiero e di rispetto per gli altri.
È un tema molto importante, recentemente trattato, con particolare finezza, dai colleghi Ricolfi e Galli della Loggia sui due maggiori quotidiani della Penisola: Repubblica e Corriere. Si tratta di una “censura linguistica” secondo cui certe cose non si possono dire: ciò impedisce un autentico dialogo e un confronto che ricorra ad argomenti anziché a uno scontro ideologico. In tempi recenti il politicamente corretto ha subito, come il Covid, diverse mutazioni: cinque, secondo Ricolfi, tra cui la cancel culture, ossia il bando dalla storia di chi è ritenuto colpevole di non essere stato rispettoso dei diritti delle minoranze e della parità di genere. Un’altra variante, la discriminazione dei non allineati, ha cominciato a manifestarsi in università americane ed europee, limitando la libertà di pensiero e di parola. Ci sono state epoche in cui l’uso dei tribunali tendeva a sostituire il confronto aperto e franco, l’andare alle cose stesse, come raccomandava il filosofo tedesco Husserl: Zu den Sachen selbst! (Tornare alle cose stesse, ndr). Una sua allieva–Edith Stein – non si adattò all’ideologia e al linguaggio dominante, e morì ad Auschwitz. Credo che nessuno, nelle università e fuori di esse, debba aver nostalgia di questo.