La bellezza della cavalleria cristiana in un romanzo medievale amato da Tolkien e riscoperto da un film intrigante
di Luca Finatti
“Il Nuovo Anno era così giovane da essere giunto soltanto la sera prima, e quel giorno la compagnia sul palco reale venne doppiamente servita, allorché il Re fece ingresso con i suoi cavalieri nella sala, terminati gli inni del coro nella cappella. Con alte espressioni di giubilo e lodi il Natale fu salutato di nuovo dai chierici e da tutti, e spesso nominato”[1].
Incomincia così Sir Gawain e il Cavaliere Verde, romanzo cavalleresco risalente al tardo XIV sec., particolarmente amato dallo scrittore e filologo J.R.R. Tolkien (1892-1973), che ne curò l’edizione critica[2] e la riscrittura in lingua inglese moderna affinché potesse goderne un pubblico più vasto di quello universitario.
L’occasione per una riscoperta di questo splendido racconto, intriso di fede e di fascino per il mondo della cavalleria, può essere la visione del film Sir Gawain e il Cavaliere Verde di David Lowery.
Il confronto fra il libro e il film è molto interessante perché dice qualcosa di ciò che eravamo e di chi siamo oggi, al termine di una civiltà cristiana che ha fatto del cavaliere un modello per il laicato cristiano a salvaguardia della possibilità del sacrificio eucaristico e della predicazione contro i nemici esterni, come ha scritto il pensatore cattolico Giovanni Cantoni (1938-2020): “Il cavaliere è nato individuo della specie umana, quindi, attraverso riti particolari e un preciso itinerario, è giunto ad acquisire lo status di difensore del sacrificio, status che è socialmente un punto di arrivo – perfezione della sua umana vocazione – e punto di partenza della sua perfezione di cristiano”[3].
La vicenda del romanzo riguarda sir Gawain (Galvano), cavaliere alla corte di re Artù, sfidato da un altro cavaliere, completamente vestito di verde, come la pelle del suo cavallo, il primo mattino di un imprecisato nuovo anno, quando tutti sono riuniti a Camelot per le feste del tempo natalizio.
La richiesta dello sfidante sembra bizzarra: vuole che gli si venga assestato un colpo al collo con la sua scure, assicurando, a chi ne avesse avuto il coraggio, di ricambiare l’anno successivo.
Sir Gawain prontamente si offre, taglia il capo che rotola ai suoi piedi e viene raccolto dal corpo monco, mentre la testa riprende a parlare, ricordando al cavaliere il patto.
Un anno dopo sir Gawain parte alla ricerca della Cappella Verde per mantenere fede al gioco di Natale – così viene chiamato – e accettare coraggiosamente la restituzione del colpo.
Diversamente dai tradizionali romanzi cavallereschi, la parte dedicata al viaggio avventuroso è molto limitata, solo 2 delle 101 stanze in cui è suddiviso il poema, composto da 2530 versi in tutto. Errando vicino ai confini del Galles settentrionale, Gawain giunge in un castello misterioso, accolto calorosamente dal feudatario e dalla sua dama.
Qui si ferma tre giorni per affrontare la prova più difficile: rimanere leale al signore ospite, respingendo la dama che gli si offre più volte spudoratamente, ma allo stesso tempo rispettare il codice cavalleresco della cortesia che vuole un cavaliere gentile e disponibile alle schermaglie amorose con nobildonne desiderose di parole galanti.
Sir Gawain supera la prova, ma giunto dinanzi al Cavaliere Verde scopre di non essersi comportato in modo impeccabile: la cintura, che gli era stata regalata dalla dama come pegno d’amore e come protezione contro i pericoli, lo rende colpevole di vanità e di timore di fronte alla possibile morte.
Sir Gawain si dispera dinanzi alla scoperta della sua fragilità: “Per il timore del tuo duro colpo prestai orecchio alla Codardia che m’ha fatto cedere ad Avidità, venendo meno alla mia natura, ch’è benevolenza e sincera parola, le doti proprie dei cavalieri […] Io mi confesso davanti a voi, la mia condotta è stata viziata”[4].
Il Cavaliere Verde però sorride, lo conforta e gli rivela di essere colui che lo aveva ospitato e che aveva deciso di tentarlo nella sua virtù, d’accordo con Morgana, sorella gelosa di Artù e dello splendore dei suoi cavalieri.
Sir Gawain torna a Camelot mortificato, ma il racconto della sua impresa galvanizza il Re perché vede in questa vicenda una giusta lezione per coloro che troppo presumono di sé, rischiando di dimenticarsi la propria natura di peccatori.
Come ha scritto Tolkien, alla fine della sua avventura la credibilità di sir Gawain è “immensamente aumentata. Egli diviene un uomo vero, e così possiamo ancor più ammirare la sua reale virtù. In effetti, possiamo considerarvi seriamente rispecchiati gli atteggiamenti dello spirito inglese nel XIV secolo, dai quali deriva gran parte del nostro sentire e dei nostri ideali di condotta. Vi vediamo il tentativo di preservare i valori della cavalleria e della cortesia anche unendoli, o grazie a tale unione, alla morale cristiana, alla fedeltà coniugale e in definitiva all’amore coniugale”[5].
Cosa rimane di tutto ciò nel film dell’americano David Lowery?
Fin dalle prime sequenze è chiaro che Gawain non è ancora un cavaliere, ma è un giovane annoiato, dedito alle donne e al vino. Il giorno di Natale, dinanzi a re Artù che gli chiede di narrargli una sua avventura, lui non sa cosa dire.
Il Cavaliere Verde, che improvvisamente irrompe a corte, è rappresentato come un uomo-albero, simile al Barbalbero dei film ispirati al romanzo Il Signore degli anelli[6].
Il regista imprime a questo personaggio i tratti dell’Uomo Selvatico, leggenda molta diffusa nella cultura nordica europea e nelle vallate alpine, tanto che lo psicologo Claudio Risé l’ha utilizzata per sfidare l’uomo contemporaneo a riscoprire l’identità maschile perduta: “un’immagine particolare si delinea nella psiche maschile, cercando spazio per fecondarla e renderla vitale: è l’Uomo Selvatico, il sapiente del bosco, il Kernunnos, il Pelùs, l’Om Salvarec, il Wilder-Mann, il Barbaa, ricoperto di peli o di foglie, accompagnato dal suo bastone o circondato dagli animali della foresta. Il suo sapere, offerto al maschio che sa accoglierlo, è quello dell’istinto, dell’abbondanza creativa della natura incontaminata, del dono di sé a chi lo ama e alla comunità, della difesa del vivente di cui è custode”[7].
Infatti è stata Morgana, solo nel film madre di Gawain, ad aver evocato questo essere sovrannaturale, per spingere il figlio a uscire dall’accidia e gettarsi finalmente in un’impresa da raccontare.
Se in un altro famoso romanzo medievale, Perceval[8], goffo ragazzo tenuto lontano dalla cavalleria dai timori di una madre apprensiva, appena vede un cavaliere, abbandona la casa per seguirlo senza rimpianti, questo giovane Gawain dei nostri tempi dev’essere strappato dalla sua vita di agi e piaceri, scaraventato con violenza sulla strada per un cammino iniziatico intrapreso controvoglia.
Il regista dedica al viaggio una buona parte del film, descrivendo il vagabondaggio in boschi misteriosi, l’incontro con briganti e creature fantastiche, l’alloggio presso la casa di santa Winifred del Galles (600 circa – 660), badessa gallese decapitata da un giovane guerriero che tentò inutilmente di sedurla, tutti episodi non presenti nel testo originale, a parte un controverso riferimento a Holyhead[9], da alcuni critici interpretata come la sacra fonte di Holy Well, alla quale è legato il culto di santa Winifred.
Infatti al visionario Lovery interessa anzitutto l’itinerario, narrato con uno stile contemplativo, niente a che vedere con la maggior parte dei film e delle serie tv in cui il cavaliere è un inverosimile supereroe oppure un sentimentale da fotoromanzo; i colori sono accesi e saturi con evidenti risonanze simboliche; la fotografia alterna paesaggi (irlandesi) di bellezza abbagliante con chiaroscuri foschi, dove i personaggi s’intravedono a fatica; la colonna sonora mischia abilmente sonorità irlandesi con canti religiosi cristiani popolari.
Insomma, nonostante la modernità di Gawain, insicuro e incerto sul proprio destino, religioso per abitudine o per convenienza, l’opera conserva l’aura sacrale ed epica del cavaliere, chiamato a svolgere un compito.
La parte dedicata alla permanenza al castello rimane abbastanza fedele alla lettera del testo, anche se il finale è enigmatico, lasciato aperto alla libera interpretazione dello spettatore.
Nel complesso questo Gawain è un milite post-cristiano: non combatte per Cristo e neppure per Artù, combatte per sé stesso, per darsi un’identità e trovare quel senso che non accetta più come ricevuto dalla civiltà in cui vive, al contrario del cavaliere medievale, nato in una società tradizionale “per la quale la verità è un dato acquisito che si trasmette nel tempo e non, come per la nostra società, un prodotto del tempo”[10].
Permane però evidente la forza del simbolismo di matrice cristiana, mai irrisa, seppur depotenziata.
La nostalgia del sacro aleggia per tutto il racconto: Gawain accetta la sfida e l’iniziazione perché in fondo sa che soltanto così imparerà le virtù necessarie (generosità, temperanza, lealtà) per diventare cavaliere, cioè uomo, capace di offrire la vita con coraggio.
Il motivo della testa tagliata “richiama anzitutto al valore magico – sacrale della testa come segno d’autorità e di potere”[11] ma è anche un riferimento alla collata cavalleresca, il colpo dato sul collo con il piatto della spada nella cerimonia d’investitura: “una decapitazione rituale dalla quale nasceva il cavaliere come uomo nuovo”[12].
Si può allora interpretare la conclusione del film lasciando emergere la vitalità del simbolo cristiano, che soffia ancora sotto le ceneri della modernità: quello del Cavaliere Verde è un gesto sacrificale e Gawain, al termine del suo percorso, è invitato a ripetere lo stesso atto rituale, assumendo i tratti cristologici di chi consegna volontariamente la propria vita.
Tutto ciò è sottolineato da una lunga sequenza premonitoria, evidente citazione della parte finale de L’ultima tentazione di Cristo[13], quando Gesù stesso è tentato di scendere dalla croce.
Gawain, come il Cristo del regista Martin Scorsese, accetta il sacrificio, non però per obbedienza al Padre, ma per aver acquisito la consapevolezza dell’infinita vanità del tutto, anche del proprio nichilismo edonistico, preferendo abbandonarsi al mistero della morte piuttosto che continuare a lasciarsi vivere come un debosciato che avrebbe portato il regno alla rovina. La nobiltà del Gawain cinematografico sembra dunque coincidere con la morte fieramente accettata per evitare di far troppi danni con la sua inanità.
Può apparire poco, ma aver toccato il fondo ed averne preso coscienza è forse già qualcosa per sperare in futuri cavalieri che, rileggendo il sir Gawain di Tolkien, sappiano invocare l’aiuto di chi davvero può dare significato pieno alla vita:
“Il cavaliere levò a quel punto
la sua implorazione a Maria,
perché lo guidasse nel suo vagare
e a qualche alloggio lo dirigesse”[14].
Sabato, 8 gennaio 2022
NOTE
[1] J.R.R Tolkien, Sir Gawain e il Cavaliere Verde. Perla e Sir Orfeo, a cura di Christopher Tolkien, postfazione di Franco Cardini, Edizioni Mediterranee, Roma, 2009, p. 32.
[2] J.R.R. Tolkien, E.V. Gordon (a cura di), Sir Gawain and the Green Knight, Clarendon Press, Oxford, 1925. Ci fu poi una seconda edizione revisionata da Norman Davis nel 1968.
In italiano sono uscite altre due traduzioni finora: Piero Boitani (a cura di), Sir Gawain e il Cavaliere Verde, con un saggio di Ananda K. Coomaraswamy, Milano, Adelphi, 1986 ; Simon Armitage, Sir Gawain e il cavaliere verde. Testo inglese a fronte, a cura di Massimo Bocchiola, Parma, Guanda, 2011.
[3] Giovanni Cantoni, Introduzione in Anonimo, La Cerca del Graal, Introduzione di Giovanni Cantoni, Borla, Torino, 1969, pag. 11.
[4] J.R.R Tolkien, Sir Gawain e il Cavaliere Verde. Perla e Sir Orfeo, cit., p. 90.
[5] Ibid., p. 15.
[6] Cfr. Il Signore degli Anelli – Le due Torri, regia di Peter Jackson, Nuova Zelanda – Usa, 2002 e Il Signore degli anelli – Il Ritorno del Re, regia di Peter Jackson, Nuova Zelanda – Usa, 2003.
Il regista Peter Jackson è anche il co-fondatore della Weta Digital, casa di produzione degli effetti speciali di molti film fantastici come questi e anche del film Sir Gawain e il Cavaliere Verde di David Lovery.
[7] Cfr. Claudio Risé, Il maschio selvatico/2, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2015. In particolare si leggano le pp. 68-73 dedicate al simbolismo psichico della testa tagliata.
[8] Chrétien de Troyes, Perceval, a cura di Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini, Oscar Mondadori, Milano, 1983.
[9] Piero Boitani (a cura di), Sir Gawain e il Cavaliere Verde, con un saggio di Ananda K. Coomaraswamy, Milano, Adelphi, 1986, p. 69, verso 700.
[10] Giovanni Cantoni, Introduzione, cit., p. 7.
[11] Franco Cardini, Postfazione in J.R.R Tolkien, Sir Gawain e il Cavaliere Verde. Perla e Sir Orfeo, cit., p. 182.
[12] Ibid., p. 188.
[13] Cfr. L’ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ), regia di Martin Scorsese, USA, 1988.
[14] J.R.R Tolkien, Sir Gawain e il Cavaliere Verde. Perla e Sir Orfeo, cit., p. 48.