Altri quattro anni di carcere per Aung San Suu Kyi aggiunti ai quattro decisi il 6 dicembre (ridotti, secondo il regime, a due nell’applicazione ai soli domiciliari). Tre i capi d’imputazione per la nuova condanna imposta dai magistrati controllati dal regime: due connessi all’importazione illegale di “walkie-talkie” e uno per avere ancora una volta infranto le regole imposte per contenere la diffusione del Covid-19. Una condanna che porta complessivamente a otto gli anni dietro le sbarre che già pesano sulla donna alla guida della democrazia birmana dal 2011 dopo esserne stata per decenni il simbolo nella lotta nonviolenta contro la dittatura.
Ad attenderla altri giudizi e prevedibilmente altre condanne, per diversi reati, tra cui frode elettorale, divulgazione di segreti di stato e vari casi di corruzione. Quest’ultimo, reato che prevede prevede in Myanmar fino a 15 anni di carcere in caso di condanna. Agli arresti dal giorno del colpo di stato, il primo febbraio 2021, la Premio Nobel per la Pace 1990 è di fatto ostaggio dei militari e la sua sorte personale e politica dipenderà dalla «collaborazione» richiesta con insistenza dai generali e che essa sarà disposta ad offrire in cambio di una attenuazione delle pene se non della piena libertà e magari di una condivisione del potere che non indebolisca il potere delle forze armate sul Paese. («Si tratta di un «processo politico», ha denunciato il comitato norvegese per i Nobel, dicendosi «profondamente inquieto per la situazione »). D’altra parte, l’evidente persecuzione a cui è sottoposta Aung San Suu Kyi, che si estende all’intera leadership del Myanmar confermata dalle elezioni del novembre 2020 e in particolare i vertici della Lega nazionale per la Democrazia che, guidata da Aung San Suu Kyi di quelle elezioni, le seconde del neonato Myanmar democratico, era stata indiscussa vincitrice, tolgono ulteriore sostegno – all’interno come all’estero – alle legittimazione del colpo di stato e della giunta guidata dal generale Min Aung Hlain Una conferma è arrivata ieri prima della sentenza da Manny Maung, ricercatore di Human Rights Watch: «L’annuncio dell’ultima condanna (quella di dicembre) aveva dato come risultato una delle giornate più intense di scambi sui social media all’interno del Myanmar e alimentato fortemente la rabbia nel Paese». Questo e ancor più la repressione costante di ogni protesta o dissenso, con una risposta armata che ha provocato almeno 1.400 morti e 300mila profughi interni, conferma quello che, dopo i commissari Onu, ancora nei giorni scorsi l’organizzazione di cui anche il Myanmar fa parte, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), ha indicato come «ingredienti per una guerra civile ». Un’arma a doppio taglio, quella repressiva, in una partita difficile da vincere perché, ha aggiunto Manny Maung, «i militari attuano le sentenze come tattiche di paura ma queste servono soltanto per provocare maggiore rabbia tra la gente».