Di Massimo Morello da Il Foglio dell’11/01/2022
La Birmania è ormai una metafora delle azioni che vi accadono, un paradigma del grottesco, dell’orrido, dell’assurdo. Sempre più appare all’osservatore, all’analista uno scenario al limite dell’incomprensibile dove il mistero sovrasta ogni logica storica e politica. In questo senso è una perfetta rappresentazione del teatro della crudeltà, uno spettacolo totale in cui sono impiegati tutti i mezzi atti a scuotere e sconvolgere.
L’ultima scena è la seconda condanna nella serie di processi montati contro Aung San Suu Kyi. Questa volta, il 10 gennaio, è stata condannata a quattro anni di carcere per possesso illegale di walkie-talkie e violazione delle restrizioni sul Covid-19. Condanna che si somma ai due anni che deve scontare per la pena già inflitta il dicembre scorso. E’ per quella pena che la Signora è stata costretta a presentarsi in aula nella “divisa” dei prigionieri, un top bianco e un longyi (il tradizionale sarong birmano) marrone: forma plastica dell’umiliazione di una donna che anche nelle situazioni più drammatiche aveva mantenuto uno stile impeccabile, di cui era simbolo un fiore tra i capelli. Se anche gli altri sette processi “in programma” si concluderanno con una condanna, la pena potrebbe arrivare a oltre cento anni. “E’ un tribunale circo con processi segreti su accuse false affinché Aung San Suu Kyi rimanga in prigione indefinitamente”, ha dichiarato un portavoce di Human Rights Watch.
Il circo diretto dal generale Min Aung Hlaing, nel frattempo, si è arricchito di una nuova attrazione: Minye Kyaw Htin, un sommergibile cinese classe Ming che è stato ceduto dalla marina dell’Esercito di liberazione popolare alla marina del Tatmadaw, le forze armate birmane. In un momento in cui la giunta appare sotto attacco da parte delle milizie etniche e dei partigiani che combattono in nome del governo d’unità nazionale, il sottomarino, nella sua assoluta inutilità, appare come un simbolo di forza da parte di un esercito disposto a mettere in campo ogni mezzo per stroncare la resistenza. Ma è soprattutto la dimostrazione dell’appoggio, sempre meno occulto, da parte del grande vicino per cui il controllo delle acque del Golfo del Bengala è molto più importante di quanto non sia per i generali fantoccio birmani. E’ da là, infatti, che passano le linee di rifornimento dirette alla provincia cinese delle Yunnan.
In questo teatro della crudeltà, la Birmania appare sempre più come l’ennesimo terreno di scontro tra le due superpotenze: il governo degli Stati Uniti, infatti, dopo la firma del National Defense Authorisation Act del 2022, che tra le altre cose richiama al sostegno della democrazia in Birmania, dovrà inevitabilmente riconoscere il National Unity Government, negando ogni legittimità alla State Administration Council, avatar “civile” della giunta militare.
Dalla parte cinese sembra già essersi schierato il premier cambogiano Hun Sen, che il 7 gennaio ha incontrato a Naypyidaw, la capitale birmana, il generale Min Aung Hlaing. La visita, la prima di un leader dell’Asean, è ancor più importante perché nel 2022 alla Cambogia spetta la presidenza di turno dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. Anche in questo modo Hun Sen cerca di spostare l’Asean nella sfera d’influenza di Pechino, ma anche in questo caso la Birmania vale solo come merce di scambio, pretesto, mentre il generale Hlaing appare sempre più come una nuova incarnazione dell’“utile idiota”. Per il governo cinese, infatti, è importante che l’Asean non prenda posizione in merito alle dispute sul Mar cinese meridionale.
E così che le grandi potenze perdono di vista le vittime dei massacri quotidiani. Secondo molte organizzazioni umanitarie è “l’approccio ‘lontano dagli occhi lontano dal cuore’”.