La celebre parabola del “figliol prodigo”, oggi spesso interpretata dalla parte del padre, spiega il modo con il quale san Giuseppe esercitò la sua paternità putativa nei confronti di Gesù
di Michele Brambilla
Papa Francesco, aprendo l’udienza del 19 gennaio, mette a fuoco la tenerezza di san Giuseppe e ricorda che «nella Lettera Apostolica Patris corde (8 dicembre 2020) ho avuto modo di riflettere su questo aspetto della tenerezza, un aspetto della personalità di san Giuseppe. Infatti, anche se i Vangeli non ci danno particolari su come egli abbia esercitato la sua paternità, però possiamo stare certi che il suo essere uomo “giusto” si sia tradotto anche nell’educazione data a Gesù». Sottolinea in particolare la consonanza con alcuni paragoni espressi nell’Antico Testamento: «come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4)».
«I Vangeli», certamente, «attestano che Gesù ha usato sempre la parola “padre” per parlare di Dio e del suo amore. Molte parabole hanno come protagonista la figura di un padre. Tra le più famose c’è sicuramente quella del Padre misericordioso, raccontata dall’evangelista Luca (cfr Lc 15,11-32). Proprio in questa parabola si sottolinea, oltre all’esperienza del peccato e del perdono, anche il modo in cui il perdono giunge alla persona che ha sbagliato. Il testo dice così: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20)», segno di un’attesa vigile e di un amore indefettibile, sempre pronto al perdono di quello che la tradizione chiama “figliol prodigo”. L’interpretazione di questa parabola dalla parte del padre è un dono della teologia più recente, mentre in passato ci si concentrava maggiormente sul percorso di conversione del figlio minore. Dio Padre, dice il Papa, «non è spaventato dai nostri peccati, dai nostri errori, dalle nostre cadute, ma è spaventato dalla chiusura del nostro cuore – questo sì, lo fa soffrire – è spaventato dalla nostra mancanza di fede nel suo amore. C’è una grande tenerezza nell’esperienza dell’amore di Dio. Ed è bello pensare che il primo a trasmettere a Gesù questa realtà sia stato proprio Giuseppe. Infatti le cose di Dio ci giungono sempre attraverso la mediazione di esperienze umane», che per ognuno di noi sono anzitutto quelle familiari.
Si ripropone, allora, la grande questione degli “ambienti”, specie se si tratta dell’ambiente domestico, e il loro influsso sulla formazione della persona: «allora possiamo domandarci se noi stessi abbiamo fatto esperienza di questa tenerezza, e se a nostra volta ne siamo diventati testimoni. Infatti la tenerezza non è prima di tutto una questione emotiva o sentimentale: è l’esperienza di sentirsi amati e accolti proprio nella nostra povertà e nella nostra miseria, e quindi trasformati dall’amore di Dio». Non bisogna dimenticarsi del fatto che «Dio non fa affidamento solo sui nostri talenti, ma anche sulla nostra debolezza redenta. Questo, ad esempio, fa dire a san Paolo che c’è un progetto anche sulla sua fragilità», come si legge in 2 Cor 12,7-9.
C’è quindi anche un aspetto “passivo” nell’ottenimento della Salvezza, e le “buone opere” sono soprattutto le strategie che attuiamo per “allenare” i nostri “punti deboli”. «Il Signore non ci toglie tutte le debolezze, ma ci aiuta a camminare con le debolezze, prendendoci per mano. Prende per mano le nostre debolezze e si pone vicino a noi. E questo è tenerezza. L’esperienza della tenerezza consiste nel vedere la potenza di Dio passare proprio attraverso ciò che ci rende più fragili; a patto però di convertirci dallo sguardo del Maligno che “ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità”, mentre lo Spirito Santo “la porta alla luce con tenerezza” (Patris corde, 2)», spiega il Pontefice citando ancora una volta la sua enciclica su san Giuseppe, al quale rivolge questa preghiera:
«San Giuseppe, padre nella tenerezza,
insegnaci ad accettare di essere amati proprio in ciò che in noi è più debole.
Fa’ che non mettiamo nessun impedimento
tra la nostra povertà e la grandezza dell’amore di Dio.
Suscita in noi il desiderio di accostarci al Sacramento della Riconciliazione,
per essere perdonati e anche resi capaci di amare con tenerezza
i nostri fratelli e le nostre sorelle nella loro povertà.
Sii vicino a coloro che hanno sbagliato e per questo ne pagano il prezzo;
aiutali a trovare, insieme alla giustizia, anche la tenerezza per poter ricominciare.
E insegna loro che il primo modo di ricominciare
è domandare sinceramente perdono, per sentire la carezza del Padre».
Giovedì, 20 gennaio 2022