III domenica di Quaresima
(Es 3, 1-8.13-15; Sal 102; 1Cor 10, 1-6.10-12; Lc 13, 1-9)
Romano Guardini, il notissimo filosofo-teologo tedesco di origine italiana, già segnato dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte, confidava ad un amico che nel giorno del Giudizio finale egli non si sarebbe solo lasciato interrogare da Dio, ma avrebbe a sua volta posto delle domande. E manifestava la sua speranza di riuscire finalmente a conoscere la verità: «Perché le sofferenze degli innocenti? Perché il dolore?». Si potrebbe dire che il Vangelo di questa domenica ponga davanti a tutti la stessa domanda, ricordando due fatti di cronaca nera che avevano lasciato sbigottiti gli abitanti di Gerusalemme al tempo di Gesù: l’uccisione di alcuni samaritani, accusati dal governatore Pilato di fomentare tumulti contro il potere romano, e la triste fine di diciotto cittadini travolti dal crollo della torre di Siloe.
Perché quella sofferenza, quel dolore, quelle disgrazie? Non erano esse “castighi di Dio” per una vita malvagia? Non si trattava di pagare il fio nei confronti di un Dio giustiziere? Quante volte si affaccia nell’animo di tanti credenti e cercatori di Dio il dubbio che il Dio ebraico-cristiano sia uno che rinfaccia le responsabilità e punisca di conseguenza! Per placarlo, occorre allora soffrire, accettare il dolore, sopportare il male fisico e morale.
Quanto “riduzionismo morale” si è sviluppato in questo contesto, e come sono diventate incomprensibili le parole cristiane, che assegnano perentoriamente un senso positivo alla “ferita dell’uomo”! Ci si preoccupi, piuttosto, di far compagnia all’uomo ferito! Sembra quasi che la Redenzione si faccia strada a spese dell’uomo e dei suoi tentativi di umanizzare la sua vita, piuttosto che a suo favore. Molte volte la sofferenza maligna avanza la pretesa di indicarci la via della verità: preme sulla nostra debolezza, affinché confessiamo che la vita è priva di senso, indegna di essere vissuta. Invece, ogni piccola sofferenza quotidiana è un pro memoria di Dio, come lo è anzitutto la massima sofferenza, che è la morte. Da cui scapperemmo sempre, rimandando continuamente le cose al futuro, se non ci fossero tanti momenti di quotidiana sofferenza, che ti riportano alla vigilanza – dove “abiti” ora? All’inferno o in Paradiso? – e, quindi, verso la conversione, che è il vero senso della pagina biblica odierna. Dal frutto triste del peccato originale e dell’azione di un nemico spirituale maligno può scaturire una vittoria solo appoggiandosi alla croce del Signore, mediante una conversione da rinnovare quotidianamente. Così tutti i giorni ci accade, come a Mosè, di trovarci innanzi ad un roveto che brucia, ma non si consuma. Lì si incontra Colui che dice: «Il mio nome è: Io sono», cioè: “Io sono presenza operante; sono presente e pronto ad agire”. Dio è Colui che è lì, che c’è. Il nome non dice ciò che Dio è in sé stesso, ma ciò che è per l’uomo, a favore dell’uomo. Si rivela non per soddisfare curiosità banali, ma per informarci di ciò che desidera da noi. Bisogna avere fede in Colui che non è indifferente, si interessa da vicino alle nostre vicende, si commuove, è vulnerabile nel suo amore. Come Mosè si mise ad agire per la salvezza di Israele, così dobbiamo fare noi oggi nel mondo contemporaneo.
Per il Vangelo, occorre ricordare che l’amore di Dio non ci protegge da ogni sofferenza, ma in ogni sofferenza, perché egli non può essere indifferenti e insensibili, sordo al dolore e all’ingiustizia, avendo già visto «la miseria del suo popolo» e avendone udito «il grido» e conosciute «le sofferenze» (Es 3,7), come ci racconta la prima lettura. Ed è per questo che al credente e al cercatore di Dio si “impongono” tre considerazioni molto impegnative:
- non cercare il dolore, ma sopportarlo accogliendolo, come Cristo fece sua la croce del Calvario;
- non va passivamente sopportato, ma combattuto, perché nel Padre Nostro Gesù dice di chiedere al Padre di liberarci dal male;
- non solo combattere il dolore, ma cercare di comprenderlo.
Può essere causato da noi stessi, ma comunque sempre accade che, affrontando il male che veramente ci riguarda – la fuga peggiora le cose – si agisca come Cristo nella Passione, che la affrontò con la speranza certa di risorgere: rapidamente ti accorgiìerai che Dio sta traendo un bene impensabile, proprio mentre affronti un accadimento che pareva pura negatività. Dio scrive dritto su righe storte, e alla fine tutto è grazia. Sullo sfondo della croce nessuna sofferenza appare inutile e insensata. Quante ottime riflessione e scelte vengono fatte nei momenti di convalescenza, quando smettiamo ogni frenesia lavorativa. Ma il Vangelo di questa domenica non si esaurisce nel metterci davanti a immagini di dolore e di morte. Esso indugia anche su una piccola parabola, molto significativa: quella di un fico che da tre anni non porta frutto e che rischia di essere estirpato per la sua sterilità (secondo la Legge d’Israele,un albero piantato era da estirpare se dopo tre anni non avesse dato frutto). L’invito che ne deriva è perfino ovvio: nessuno può “permettersi” di essere sterile, nella storia che vive. Ognuno deve arrivare a sera, provvidamente stanco, ma tutt’altro che oppresso, perché tutto ha messo a frutto, nella sua giornata, secondo l’amore del Padre.
Domenica, 20 marzo 2022