IV domenica di Quaresima
(Gs 5, 9a.10-12; Sal 33; 2Cor 5, 17-21; Lc 15, 1-3.11-32)
Il Vangelo odierno è la parabola del figliol prodigo. E’ una storia e come tale va ascoltata, soffermandoci sui singoli paragrafi per cogliere dettagli importanti delle figure umane presentate.
Nella prima scena vi è tanta tristezza! Non una parola di grazie al padre. Non un pensiero per il sudore che forse è costato al padre per mettere insieme quell’eredità. Il padre è ridotto ad un trasmettitore di patrimonio. Il patrimonio è tutto quello che al figlio interessa del padre, non i consigli, i valori, gli affetti. Chiede la sua parte come se il padre fosse già morto. L’eredità «che mi spetta»: si ricorda di essere figlio solo per rivendicare il suo diritto all’eredità. Gesù non inventa nulla, ha solo desunto l’episodio dalla vita quotidiana.
Non è così anche al giorno d’oggi? Basti pensare ai ragazzi che se ne vanno sbattendo la porta, che consumano nella droga o in altri disordini il patrimonio paterno: quando hanno finito il denaro, tornano senza vergogna a casa per domandarne altro. Con la sua parte di eredità, il figlio minore della parabola vive da dissoluto, divorando i soldi con le prostitute. Il ragazzo si ritrova solo, sprovvisto di tutto, a pascere i porci. Questo non è certo oggi il lavoro più allettante per un giovane, ma per un ebreo di quel tempo era addirittura la più grande ignominia, perché il maiale era considerato animale immondo.
Questa situazione tragica porta finalmente ad un’autentica profonda riflessione. All’inizio del mutamento c’è l’attimo in cui il giovane “rientra in sé stesso”. A partire da quell’istante, in cui dice tra sé: «Ho peccato», è già una persona nuova. Tutto il seguito non è che un seguire, ormai, la decisione presa. Quante cose straordinarie scaturiscono, a volte, dal coraggio di rientrare in sé stessi, dal mettersi a nudo di fronte alla propria coscienza! Torna verso casa, «ma il padre lo vide quando era ancora lontano e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono degno di essere chiamato tuo figlio”». Da questo momento il protagonista non è più il figlio, ma il padre: «Commosso gli corse incontro». Nessun accenno alla sua pena, alle sue ragioni, nessun rimprovero. Non lo trattiene il sentimento di dignità che vieterebbe ad un anziano di mettersi a correre. Sono le sue viscere paterne a comandare. Il grande pittore Rembrandt ha fissato in un quadro molto noto il momento in cui il figlio si getta ai piedi del padre per fare la sua confessione. In esso colpisce l’intensità del volto del padre e la tenerezza con cui appoggia le sue due mani sulle spalle del ragazzo. Di quanto ha portato via da casa non resta che una veste sbrindellata, due sandali che non stanno più nei piedi e il pugnale per difendersi dalle bestie feroci. Si comprende da tale immagine quanto segue nella parabola: «Presto, portate il vestito più bello, mettetegli l’anello al dito…..facciamo festa». Tutto, in questa parabola, è sorprendente. Mai Dio era stato dipinto agli uomini con questi tratti. Ha toccato più cuori questa parabola da sola che tutti i discorsi dei predicatori messi insieme. Essa ha un potere incredibile di agire sulla mente, sul cuore, sulla fantasia, sulla memoria. Sa toccare le corde più diverse: il rimpianto, la vergogna, la nostalgia. Gesù non ha dovuto inventare dal nulla questa immagine di Dio; l’ha succhiata, per così dire, con il latte materno. Egli ha portato alla perfezione, come Figlio «che è nel seno del Padre», l’idea di Dio che si riscontra nei momenti più alti della rivelazione biblica. Nei profeti si parla di un Dio che prova “un tuffo al cuore” ogni volta che si ricorda di Efraim (era il secondo figlio di Giuseppe – figlio di Giacobbe -, che suo nonno aveva adottato in punto di morte, per dargli la sua parte di eredità), il suo figlio primogenito (Ger 31,20), che si sente «fremere di compassione le viscere» (Os 11,8); un Dio che non mostra il suo volto sdegnato e non conserva sempre la collera, ma si compiace di aver misericordia (Mic 7,18).
E’ questo forse il legame più profondo che esiste tra Ebrei e cristiani. Non abbiamo in comune solo lo stesso “padre Abramo”, ma lo stesso Dio Padre. Lo stesso volto paterno di Dio brilla e rischiara le due fedi. Non siamo uniti solo dal fatto che gli uni e gli altri adoriamo un Dio unico e siamo due religioni monoteistiche, ma più ancora dall’idea che gli uni e gli altri abbiamo di questo Dio unico: un Dio pieno di tenerezza e compassione.
Domenica, 27 marzo 2022