L’Italia è stata per lungo tempo una meta ambita per chi andava alla ricerca delle radici culturali dell’Europa. Ora rischiamo di passare dall’ammirazione per la bellezza del nostro Paese ad un triste processo di cancellazione della memoria.
di Susanna Manzin
Ho avuto occasione di visitare una interessante mostra, allestita a Milano alle Gallerie d’Italia di Piazza della Scala, che mi ha suggerito alcune riflessioni sulla triste parabola della nostra civiltà. L’esposizione di dipinti, sculture, oggetti artistici provenienti da importanti collezioni europee aveva l’obiettivo di raccontare il cosiddetto “grand tour”, il viaggio di istruzione e di formazione in Italia che, principalmente tra Settecento e Ottocento, veniva intrapreso dalle élite europee, da letterati, filosofi, musicisti e artisti provenienti da tutta Europa, per i quali questa esperienza di viaggio era un’occasione di forte arricchimento culturale. Questo fenomeno di costume rivela un’immagine dell’Italia come faro di civiltà per tutto il nostro continente: visitare la nostra nazione voleva dire acquisire una conoscenza diretta della culla della cultura Occidentale.
Questi viaggiatori erano espressione di un mondo che si riconosceva in radici comuni e l’Italia era il luogo che racchiudeva in sé questo patrimonio europeo. Nella nostra penisola essi trovavano le tracce della cultura greca, visitando i siti archeologici della Sicilia, Paestum, l’antro della Sibilla; restavano affascinati davanti al Colosseo e alle rovine dell’antica Roma; contemplavano i monumenti medioevali e rinascimentali di Firenze, l’architettura barocca della Cristianità, lo splendore di Venezia, la bellezza della natura mediterranea. Nei loro diari i viaggiatori manifestavano apprezzamento anche per la cordialità dell’accoglienza, per la qualità delle relazioni umane, per il valore di una cultura che permeava ogni aspetto della vita quotidiana.
Tra le opere esposte nella mostra ho particolarmente apprezzato il quadro del 1855 opera del pittore Giulio Carlini che immortala la famiglia Tolstoj che si accinge a salire su una gondola a Venezia (non si tratta del celebre scrittore, ma di suoi parenti) e il ritratto di Francis Basset, primo Barone di Dunstanville, appoggiato ad una colonna romana, con in mano una cartina della Città Eterna, e sullo sfondo la Basilica di san Pietro e Castel Sant’Angelo (opera di Pompeo Batoni del 1778). Non era ancora l’epoca delle fotografie e dei selfie, e quindi questi raffinati turisti acquistavano quadri che ritraevano i luoghi che avevano visitato oppure si facevano ritrarre davanti ai monumenti, per portare a casa un souvenir da appendere nei loro palazzi, come ricordo imperituro del loro viaggio.
Visitare il nostro Paese era dunque d’obbligo per chiunque avesse un ruolo importante nella società; i giovani rampolli di nobili casate erano spinti a intraprendere questo grand tour come un itinerario formativo assolutamente necessario per comprendere la nostra civiltà e poter così affrontare con adeguata consapevolezza le sfide sociali e politiche che li attendevano.
La mostra non è solo una celebrazione della ricchezza del patrimonio storico e artistico dell’Italia, ma ha anche il pregio di porre in evidenza l’esistenza di un’Europa unita nella cultura e nei valori, un continente consapevole di essere stato edificato su radici profonde meritevoli di essere conosciute e valorizzate con passione. Purtroppo, la deriva ideologica che connota la modernità ha a poco a poco tagliato queste radici e la contrapposizione tra il grand tour sette-ottocentesco e il fenomeno a noi contemporaneo della cancel culture è evidente e stridente: oggi si imbrattano o si rimuovono le statue dei personaggi storici del passato, si riscrive la toponomastica, si “correggono” opere d’arte e letterarie per adeguarle alle nuove sensibilità, siamo passati dall’ammirazione per la nostra storia al tentativo della sua cancellazione.
Il processo plurisecolare che ha a poco a poco sgretolato la nostra civiltà ha davvero inferto un colpo mortale al fenomeno del viaggio culturale alla ricerca delle nostre radici? In realtà non è così. L’Italia delle città d’arte è ancora oggi una meta molto ambita e nel convegno che Alleanza Cattolica ha organizzato il 19 marzo 2022 a Genova, dedicato proprio al tema della cancel culture, Lorenzo Cantoni nelle sue conclusioni ha ricordato che circa il 40 % dei viaggi in Europa è motivata da ragioni culturali, ci sono milioni di persone che vogliono conoscere meglio la storia e la civiltà d’Europa: perché non ripartire da lì? La Nuova Evangelizzazione potrebbe essere costruita anche partendo dall’evidenza del nostro patrimonio artistico e culturale, ne potrebbe nascere una bella “pastorale del turismo”. In controtendenza con quanto viene raccontato in certe aule universitarie, i turisti si precipitano al Colosseo e a piazza san Pietro, salgono sulle gondole del Canal Grande a Venezia, gustano il fascino della Magna Grecia nella Valle dei Templi e restano incantati davanti al Golfo di Napoli. L’ospitalità italiana, l’arte dell’accoglienza e (perché no) anche la sua ottima cucina sono in fondo anch’esse frutto di una cultura plurimillenaria che affonda le sue radici in una sana antropologia che ha dato vita a uno spirito comunitario generoso che trasmette gioia e speranza. «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre». (Luca, 19,40). Non stupiamoci che l’Italia sia ancora, nonostante tutto, un luogo mitico per tanti stranieri. Possiamo essere ancora un faro di civiltà, abbiamo tutti gli strumenti a portata di mano. Non perdiamo questa occasione, almeno fino a quando questi monumenti ci sono ancora, prima che la cancel culture non ne faccia tabula rasa.
Sabato, 7 maggio 2022