Di Maurizio Milano da IFamNews del 02/05/2022
Non vi sono dubbi che i figli siano un costo. Addirittura, in una società avanzata, ragionando in termini di contabilità fredda, persino un investimento a fondo perduto. Eppure, anche senza effettuare studi approfonditi, è evidente a tutti come non siano i Paesi più ricchi e le classi sociali più agiate a dare vita a famiglie numerose. Accade piuttosto l’inverso. Tant’è vero che, al crescere delle condizioni economiche, in genere diminuisce il numero di figli per famiglia.
Nel 2021 il tasso di fecondità totale delle donne italiane – che esprime il numero medio di figli per donna in età fertile – ha toccato un nuovo minimo storico: 1,17, molto al di sotto del cosiddetto «tasso di sostituzione», ovvero circa 2,1 figli per donna, ovvero il livello necessario per garantire il ricambio generazionale in presenza di un saldo migratorio nullo.
Per avere un pareggio bisogna risalire al lontano 1976. Dopo l’introduzione del divorzio e poi dell’aborto in Italia negli anni 1970, quell’indicatore è collassato e non si è più ripreso. La tendenza al calo demografico, in tutti i Paesi sviluppati – dal Giappone agli Stati Uniti d’America, dalla Germania all’Italia –, è infatti consolidata da lustri e non può evidentemente essere considerata come una conseguenza degli alterni cicli economici. Infatti, anche quando in fasi di ripresa economica, la natalità non riparte.
Lo stesso ulteriore crollo della natalità conseguente ai lockdown per CoViD-19 degli ultimi due anni è un’accelerazione al ribasso di un trend che in Italia è appunto negativo da decenni. Per di più il nuovo calo non è dovuto solo al peggioramento dell’economia, ma forse e soprattutto al clima di paura e di insicurezza creato da una comunicazione massmediatica ossessiva e da una gestione politico-sanitaria accentratrice e repressiva.
E allora perché?
Ma se non è l’economia, quali sono allora le cause strutturali del declino della fertilità? Fornire la risposta corretta è importante, se si auspica di invertire la tendenza nefasta al suicidio demografico in atto, che verosimilmente è proprio una delle cause profonde delle stesse crisi economiche e finanziarie ricorrenti.
Risulta del resto evidente che non sarà la mancetta di Stato dell’assegno unico universale a invertire la china della natalità né in Italia né in alcuno degli altri Paesi sviluppati. È certamente auspicabile e doverosa una revisione della fiscalità che tenga conto della contribuzione al bene comune delle famiglie con figli, ma senza illudersi che un aggiustamento fiscale sia da solo sufficiente a invertire tendenza. Le cause profonde, infatti, sono lato sensu di tipo culturale, e ogni azione che non agisca anche e soprattutto a tale livello è quindi destinata inevitabilmente all’insuccesso.
In un paper pubblicato sul Journal of Economic Perspectives dagli economisti Melissa S. Kearney, Phillip B. Levine e Luke Pardue la narrazione dominante che considera il declino demografico una conseguenza di quello economico trova smentita accurata e documentata nei numeri. Lo studio citato prende in considerazione il forte declino nei tassi di natalità negli Stati Uniti tra 2007 e 2020, a partire cioè dalla Grande crisi finanziaria sviluppatasi dopo il collasso dei mutui sub-prime e il fallimento della Banca d’affari statunitense Lehman Brothers, avanzando possibili spiegazioni a partire dai dati raccolti.
L’evidenza empirica mostra come la riduzione della fertilità statunitense sia stata generalizzata e abbia riguardato gruppi differenti di donne, dalle teenager alle donne ispaniche alle donne bianche con elevato livello di istruzione. La Grande Recessione del 2007-2009 ha certamente contribuito al declino nella fase iniziale, ma gli autori non identificano alcun altro fattore economico o sociale responsabile del calo continuato anche negli anni successivi. Nonostante la forte ripresa economica dopo il 2010, e il fatto che i redditi statunitensi siano a livelli record con standard di vita migliori di quanto non fossero nei decenni passati, la natalità ha infatti continuato a diminuire. Neppure si sono registrati effetti correlati al variare negli anni delle policy governative in campo demografico.
Cambio di paradigma
Da un punto di vista meccanico, la diminuzione del tasso di fertilità può essere invece attribuito, secondo i ricercatori, a un «cambio di priorità» nella popolazione femminile, in particolare delle più giovani, che appaiono meno propense a investire tempo, fatica e risorse per accogliere e per educare i figli. Il calo è dovuto in particolare alla mancanza di nuovi figli primogeniti più che non alla mancanza di figli successivi al terzo. Non sono quindi le famiglie numerose che hanno cessato di crescere, ma sono le nuove famiglie che non hanno iniziato a procreare.
Anche il tasso di nuzialità è collassato. Una delle correlazioni più certe è quella che lega la fertilità al matrimonio, perché una donna sposata tende ad avere mediamente circa il doppio di figli rispetto a una donna non sposata (negli Stati Uniti ogni 1.000 donne di età compresa fra i 15 e 44 anni si registrano circa 84 bimbi per le donne sposate e solo 40 per quelle non sposate), ed è una tendenza vera anche in Italia e negli altri Paesi. Quindi, se i matrimoni diminuiscono, o se vengono rinviati a un’età sempre più avanzata, si può essere certi che anche la natalità subisca un contraccolpo negativo. E questo è quanto puntualmente accaduto negli Stati Uniti e in Italia.
Un’altra cattiva notizia
Un altro fattore alla base del forte calo demografico statunitense dopo il 2007 è il crollo della fertilità tra le donne di origine ispanica, che hanno iniziato ad assumere i medesimi stili di vita delle proprie coetanee di altra etnia e cultura. Infatti, una delle cause che incidono negativamente sulla natalità, ben più dei costi direttamente legati al mantenimento e all’educazione dei figli, è legata alle “opportunità” di vita a cui occorre rinunciare – vero in modo specifico le donne – per mettere su famiglia: dal prolungamento dell’istruzione alle maggiori possibilità di carriera, di reddito e di tempo libero. Una conferma ulteriore che la causa non è l’economia bensì la cultura, intesa nel senso più ampio possibile come “visione del mondo”: gli statunitensi, insomma, su questo punto iniziano ad assomigliare sempre di più agli europei, e non è una buona notizia.
L’analisi dei tre economisti si conclude con una riflessione sulle possibili azioni da intraprendere. Se le cause profonde sono di tipo culturale, e non economico-finanziario, come risulta oramai dimostrato, per invertire la tendenza non ci si potrà limitare a interventi riequilibrativi di tipo fiscale, seppur opportuni e necessari. Occorre invece un cambio di paradigma di tipo culturale. Per usare espressioni oggi alla moda, serve una nuova narrazione a favore della famiglia naturale e della vita, senza cui il nostro modello sociale, economico e politico non sarà sostenibile a lungo. E non si creda che si tratti di questioni “religiose”: su questo si gioca il nostro futuro.