Il biografo padre Zdzislaw Kijas racconta il martirio di suor Paschalina Jahn e di altre nove consorelle della Congregazione delle Suore di Santa Elisabetta trucidate, in odio alla fede, in Polonia, tra il febbraio e il maggio del 1945 durante l’invasione dell’esercito sovietico. Servivano malati e anziani. L’11 giugno a Breslavia la cerimonia di beatificazione
Wlodzimierz Redzioch
Quando all’inizio del 1945 i russi occuparono Nowogrodziec, le suore di Santa Elisabetta vennero cacciate dalla loro casa e trovarono rifugio nella canonica. Una notte stavano in una stanza buia e pregavano in silenzio. Verso le 8 della sera i soldati comparvero nella stanza delle suore, catturarono suor Rosaria. Ella riuscì a difendersi fino a quando non l’attaccarono da tre lati contemporaneamente. La trascinarono fuori e la violentarono in più di trenta, per ore. Quando tornò era insanguinata, ferita alla testa e con emorragie interne. Si temeva per la sua vita e il parroco le diede l’assoluzione generale. La sera seguente, i soldati tornarono in canonica e ordinarono a tutti di andare alla stazione, occupata dal comando militare. Il comandante ordinò a suor Rosaria di rimanere: evidentemente voleva abusare di lei da solo. Ma lei, anche se sfinita, disse che doveva stare con le consorelle e appoggiandosi sulla spalla di suor Caritosa si alzò. Camminava con enorme fatica e in un certo momento si sdraiò sul marciapiede. Il comandante le ordinò di alzarsi ma lei non aveva più forze. Disse al comandante: “Non ce la faccio. Riposo un attimo e poi mi rialzo, lo prometto”. Ma l’uomo la guardò, poi estrasse la pistola e sparò: dopo il secondo colpo, era già morta. Mesi dopo il suo corpo fu ritrovato in un mucchio di sabbia.
Tra le città occupate dalle truppe dell’Armata Rossa c’era anche quella di Żary dove le suore di Santa Elisabetta avevano un convento. Furono cacciate dalla loro casa e buttate per strada. Trovarono un rifugio in una taverna per proteggersi dal freddo ma anche dai bombardamenti. Nella taverna si trovarono anche dei civili, soprattutto donne e ragazze. I soldati venivano ogni tanto e portavano con sé qualche donna. Le suore cercavano come potevano di proteggere le ragazze ma non sempre riuscivano. Le donne violentate cercavano consolazione negli abbracci delle suore. Dopo qualche giorno, le suore cambiarono nascondiglio rifugiandosi con altra gente nella canonica che è rimasta in piedi. Ma i soldati scoprirono il loro nascondiglio. Purtroppo, i persecutori venivano attirati dagli abiti delle suore.
Una notte i russi presero tre suore e altre ragazze, le portarono via e le abusarono fino alle 4 del mattino. Quando sono tornate alla canonica, una di loro, suor M. Edelburgis confidò al parroco: “in nessuno caso sopporterò oltre, dovesse anche costarmi la vita”. Qualche giorno dopo nella canonica si presentò un gruppo di soldati ubriachi con un capo che i testimoni descrissero come “mongolo” perché aveva i tratti asiatici. Si scatenarono contro le donne che gridavano. Ovunque si sentivano spari. Uno dei soldati, che era completamente ubriaco, si rivolse alla suora “Sei mia, adesso vieni con me”. S. Edelburgis gridò: “Per niente al mondo, mai!”.
Era abbastanza forte e riusciva a liberarsi dalla stretta del soldato. Quando il russo si rese conto che non l’avrebbe piegata con la forza, passò alle minacce: “Ti ammazzo come un cane. Ti sparo” che non la spaventarono. “Va bene, spara!”. L’aggressore, stupito, non sapeva cosa fare ma alla fine le sparò diversi colpi. Edelburgis moriva gridando “Gesù mio”. Morì tra le braccia di una consorella. Quando gli aggressori si accorsero che la suora era morta, fuggirono. Il parroco riuscì a darle l’estrema unzione. Le sue spoglie rimasero tre giorni sul luogo del martirio; il suo corpo venne sepolto nel giardino presso la canonica tre giorni dopo”.
Questi due fatti di violenza e di martirio potevano accadere negli ultimi mesi in Ucraina ma in realtà sono accadute 77 anni fa, nel 1945 alla fine della Seconda guerra mondiale, quando l’Armata Rossa giunse nel territorio della Bassa Slesia e di Opole cacciando i tedeschi. Ma i “liberatori” si comportavano in maniera brutale con la popolazione civile: rubavano, terrorizzavano la gente, picchiavano e violentavano le donne, senza risparmiare ragazze, anziane né suore. La maggior parte delle suore preferivano morire da martiri piuttosto che venir meno al loro voto di castità.
Tra queste suore c’erano anche le suore di Santa Elisabetta, come s. Rosaria e s. Edelburgis. Il processo di beatificazione delle dieci religiose è cominciato nell’arcidiocesi di Breslavia il 25 novembre 2011: la fase diocesana si è conclusa nel 2015, quella romana il 19 giugno 2021 con il decreto in cui Papa Francesco proclamava il martirio delle suore che adesso saranno beatificate l’11 giugno prossimo a Breslavia.
Un libro pubblicato in Italia avvicina le figure delle future beate. Si intitola: Le dieci vergini sagge. Le martiri di santa Elisabetta (Edizioni Leggimi – Vignolo, CN), ed è stato scritto dal francescano polacco Zdzislaw Jozef Kijas, postulatore generale dell’Ordine Francescano, già preside della Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura-Seraphicum e, dal 2010 al 2020, relatore della Congregazione delle Cause dei Santi.
Chi erano queste religiose?
«Le Suore di santa Elisabetta erano chiamate “le sorelle grigie”, allora possiamo dire che erano persone normalissime, apparentemente “grigie”. Non si sono distinte in alcun modo, non svolgevano alcuna funzione speciale nella congregazione. Erano semplici suore che si prendevano cura dei malati, perché quello ero il carisma principale dell’ordine: i malati che stavano nelle case delle suore o venivano visitati da loro nelle proprie case quando erano soli. Le sorelle preparavano anche i pasti per i bisognosi. Erano per lo più le donne del posto, slesiane, perché la congregazione delle Suore di Santa Elisabetta era molto presente in Slesia».
Come queste suore “grigie” sono diventate martiri?
«Quando il fronte della guerra era in arrivo nel territorio della Bassa Slesia e di Opole, la superiora suggerì alle suore di fuggire in luoghi sicuri. Si sapeva già cosa stesse facendo l’Armata Rossa, come venivano trattate le donne, soprattutto le suore. Tuttavia, la maggior parte delle suore decise di rimanere perché i malati, gli anziani e i feriti di cui si occupavano non potevano essere portati via. E in questo modo sono diventate vittime delle bestialità dei soldati sovietici: morirono in difesa della propria purezza, di altre sorelle o di persone di cui si sentivano responsabili. Una delle sorelle fu uccisa per difendere una giovane che lavorava da loro. Altre sono stati fucilate e date alle fiamme nel quartier generale militare, difendendosi dall’aggressione. Le circostanze di queste morti, tutte drammatiche, furono molto diverse e avvennero in vari luoghi».
Perché si è deciso di istituire un processo di beatificazione collettivo?
«Perché appartenevano alla stessa congregazione religiosa in una determinata area. Sono morte per mano dello stesso persecutore, l’Armata Rossa, con la stessa dinamica degli eventi e i motivi della loro morte erano simili».
I soldati dell’Armata Rossa hanno ucciso molte donne. Perché la morte di queste suore vengono considerate un martirio?
«Non tutte le morti di una vittima innocente sono martirio in senso religioso. Va sottolineato, tuttavia, che le dieci suore che saranno beatificate come martiri rappresentano, in un certo senso, l’intero gruppo delle donne martiri. Diverse dozzine di sorelle di S. Elisabetta furono uccise. I soldati sovietici uccisero anche centinaia di suore di altre congregazioni e migliaia di laiche. Sono state selezionate queste dieci perché è stata conservata la maggior parte delle prove sulle loro vite e morti, sulla base delle quali si può dimostrare che hanno effettivamente subito la morte di un martire, che erano pronte a dare la vita e che i loro carnefici erano mossi dall’odio per la fede».
Ma in che senso la morte delle suore fu un martirio per la fede?
«La loro fede ha dato loro il coraggio di non scappare, di rimanere con i malati e i bisognosi in una situazione apparentemente senza speranza di fronte all’aggressore che sembrava essere onnipotente. Si sapeva che quello che stavano facendo i soldati dell’Armata Rossa era terribile. Difendendo la loro castità, credendo che Dio le avesse chiamate a farlo, difendevano indirettamente la loro fede. Senza questa fede, probabilmente non avrebbero deciso di morire. Nel caso delle suore di Santa Elisabetta è stato anche possibile provare che l’aggressore le colpiva non solo perché erano donne, ma perché erano religiose, perché indossavano l’abito religioso. Questo era anche legato alla loro formazione ideologica. Dopotutto, ai soldati sovietici fu insegnata l’ideologia dell’ateismo comunista. Quello che stavano facendo non era la “semplice” aggressione di un soldato; era l’aggressione di un soldato con un compito specifico: distruggere ciò che viene da Dio».
Per il processo collettivo è stata scelta una suora, suor Maria Paschalis Jahn, per rappresentare simbolicamente questo gruppo di suore martiri.
«Perché la sua vita e le circostanze della morte erano ben documentate. Per di più era la più giovane del gruppo: morì all’età di soli 29 anni nell’attuale Repubblica Ceca. Anche il suo culto era molto forte».
Perché il processo di beatificazione delle suore è iniziato solo nel 2011, cioè 66 anni dopo la loro morte?
«Ovviamente nel periodo comunista non si poteva parlare dei crimini dei soldati dell’Armata Rossa presentati come “liberatori”. Ma non è stato facile nemmeno dopo la caduta del comunismo. Per avviare il processo di beatificazione è necessario coinvolgere molte persone preparate, risorse economiche… Per di più le Suore di Santa Elisabetta si sono concentrate prima sul processo di beatificazione della loro fondatrice, la beata Maria Luisa Merkert, che è stata elevata agli altari nel 2007. Solo successivamente, le suore hanno potuto affrontare quest’altro impegno che finisce oggi con ormai prossima beatificazione delle martiri».
Da Famiglia Cristiana on-line del primo giugno 2022