Perché la morte di al-Zawahiri è importante e perché non bisogna ignorare i fermenti nella galassia jihadista
di Valter Maccantelli
Nei giorni scorsi il presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, ha pubblicamente rivendicato l’eliminazione di Ayman al-Zawahiri, colpito da due missili Hellfire R9X lanciati da un drone nell’ambito di un’operazione della CIA. La particolare enfasi pubblica data dalla Casa Bianca e alcuni particolari emergenti fanno ritenere probabile la morte di quello che è considerato “l’erede” di Osama bin Laden, già però dato per defunto numerose volte in passato.
La sua presenza a Kabul, in una zona controllata dal cosiddetto “clan Haqqani” – considerato avversario della politica di basso profilo adottata dagli altri esponenti di governo e vicino alle componenti più radicali dei servizi segreti pakistani – nonché la relativamente blanda protesta dello stesso governo afgano, testimoniano che la dualità, evidenziata lo scorso anno, fra “talebani di lotta” e “talebani di governo” continua a manifestarsi sul campo. Al punto da non rendere assurda l’ipotesi che al-Zawahiri ci sia semplicemente finito in mezzo.
Ayman al-Zawahiri è un nome meno noto al grande pubblico rispetto a quello del suo più “illustre” predecessore alla guida di al-Qaeda, ma la sua importanza nella storia dell’organizzazione terroristica e, di conseguenza, le implicazioni della sua morte sono probabilmente ancora più significative di quelle originate dalla morte di Bin Laden nel 2011.
Ayman Mohammed Rabie al-Zawahiri nasce nel 1951 a Giza, in Egitto, da una famiglia non solo economicamente benestante, ma di grande prestigio culturale politico e religioso: fra i suoi antenati per parte di padre si annovera un Grande Imam di al-Azhar e, per parte di madre, un fondatore della Lega Araba e un rettore dell’Università del Cairo.
Fin da giovanissimo è attratto dalla lettura più integralista dell’islam. A soli 14 anni entra nel gruppo dei Fratelli Musulmani egiziani; questo lo porta a contatto diretto, nel 1966 – a soli 15 anni –, con l’evento che possiamo considerare il big bang del fondamentalismo jihadista moderno: l’esecuzione, da parte del governo egiziano, del pensatore e teorico ultra-fondamentalista Sayyd Qutb.
Si laurea in medicina e chirurgia con buoni voti e serve come medico per tre anni nell’esercito egiziano. La sua attività di chirurgo lo porta, a metà degli anni ’80, in Arabia Saudita, dove nel 1986 incontra Osama Bin Laden, diventando nel tempo prima il suo medico, poi il suo vice (nel 2004) e, infine, il suo successore come emiro di al-Qaeda, nel 2011.
Nel frattempo al-Zawahiri aveva mosso i suoi primi passi nella galassia jihadista, diventando il secondo emiro di un’organizzazione dalla storia molto complessa, la Jihad Islamica Egiziana, che si unirà formalmente ad al Qaeda nel 2001.
Vivente Bin Laden, al-Zawahiri, considerato da quasi tutti “l’uomo alla sinistra di Bin Laden”, ha in realtà sviluppato il suo status di teorico della strategia terroristica di al Quada e ha contributo in maniera fondamentale nel determinarne la natura e la tipologia organizzativa.
Al-Qaeda si è sempre caratterizzata per una visione elitaria del jihad, distinguendosi nettamente dall’approccio “populista” dell’ISIS o “nazionalista” dei talebani. La lotta viene portata avanti consapevolmente da una ristretta cerchia di professionisti, addestrati alla vita clandestina e con buone risorse tecniche, che usa manovalanza occasionale per farcire di terrore il proprio cammino, senza mai arrivare allo scontro in campo aperto, che le sarebbe fatale.
Una strategia con l’aggiunta del gesto terroristico perpetrato come strumento per acquisire prestigio e lucrare consenso presso le masse islamiche, mettendo cosi a nudo la debolezza e la vulnerabilità del nemico. Di questa strategia al-Zawahiri è stato probabilmente l’autore più consapevole ed ascoltato.
Morto Bin Laden e succedutogli alla guida di al-Qaeda, al Zawahiri l’ha di fatto portata nel XXI secolo, gestendo il processo di digitalizzazione della comunicazione, sia interna che esterna, senza annullare la sua natura organizzativamente tradizionale, centralista e gerarchica. Sotto la sua direzione si è anche sviluppata la tendenza all’africanizzazione del jihadismo ed è stata coltivata una fitta trama di relazioni con il mondo della nuova criminalità organizzata, che però non ha completamente travolto al-Qaeda, come sta accadendo invece alle schegge eredi del concorrente ISIS.
Oggi possiamo dire che al-Qaeda sia modellata, almeno fino al 30 luglio, sul pensiero e la dottrina dell’azione di al-Zawahiri molto di più di quanto lo fosse su quello di Bin Laden all’indomani della sua eliminazione.
Per questo la sua successione sarà davvero importante da osservare. Sarà un fedele continuatore, come Saif al-Adl, egiziano, a lungo suo luogotenente jihadista di vecchia generazione, o un esponente dei “nuovi territori”, come il leader algerino, nonché suo genero, Abdal Rahman al-Maghrebi? O ancora, un esponente dell’ala “manesca”, come Ahmed Diriye, attuale leader di al-Shabab, o vedremo emergere volti nuovi?
La risposta a queste domande conterrà elementi davvero utili per capire ed affrontare un problema, come quello del jihadismo, che non dobbiamo fare l’errore di considerare spazzato via dalla pandemia o dalla guerra in Ucraina.
Venerdì, 5 agosto 2022