Da Avvenire del 19/08/2022
La palestra della facoltà di fisica è la loro casa. Per centocinquanta sfollati. Per lo più donne e bambini. I materassi sistemati sul linoleum o su qualche bancale sono i letti. Le casse in legno affiancate a due a due, i tavoli dove mangiare. E le corde tirate fra un canestro e la pertica, gli stendini dove lasciar asciugare gli abiti lavati negli spogliatoi. Pochi, a dire il vero. Perché quando si fugge dalle bombe e si deve mettere tutto ciò che si può in una valigia, è miserrimo quanto resta di una vita che la guerra ha travolto. Le alte porte a vetri si affacciano sul parco Taras Shevchenko, polmone verde di Leopoli che porta il nome del “padre” della cultura moderna ucraina. È uno dei hub che accoglie i profughi dell’invasione russa, anche con i cinquantaquattro “appartamenti” prefabbricati donati dal governo polacco che formano un piccolo villaggio in mezzo ai giardini. Tre i letti in ciascuna casetta. Servizi igienici in comune. E anche le cucine. «Chissà come sarà possibile affrontare l’inverno così. Rischiamo la catastrofe umanitaria», sospira l’arcivescovo Mieczyslaw Mokrzycki mentre saluta due bambini che giocano sull’asfalto e benedice la mamma che aspetta il terzo figlio ed è seduta davanti all’ingresso del loro modulo abitativo. Lei è originaria della regione di Kharkiv e ha lasciato il suo paesino poco prima che l’esercito russo lo occupasse. E lì è rimasto il marito a combattere.
Si continua ad arrivare da tutto il Paese a Leopoli, la città a settanta chilometri dal confine con la Polonia che è considerata una delle più “sicure” in Ucraina. Si arriva per fermarsi. Si arriva per varcare la frontiera Ue, come accade alle decine di pullman che ogni giorno partono pieni. E si arriva per curarsi. Perché Leopoli è anche un pronto soccorso per i feriti di guerra, soprattutto bambini, che affollano gli ospedali, magari in attesa di essere trasferiti all’estero. Con i suoi 250mila i rifugiati su una popolazione di un milione di persone, resta la capitale dell’accoglienza. E della speranza al riparo dagli attacchi. «Di fatto un abitante su quattro è profugo. E la maggioranza di loro parla russo benché sia ucraino», afferma il presule. Si vive ovunque: accampati per strada o davanti alla stazione ferroviaria e dei bus dove ancora si approda quando si abbandonano le zone a rischio; e poi nelle scuole, nelle palestre, negli uffici pubblici, nei teatri o nelle famiglie che anche le diverse Chiese hanno mobilitato. La piccola arcidiocesi latina sta ospitando 2.500 sfollati fra parrocchie, monasteri, case di spiritualità e appartamenti che i fedeli hanno aperto. E la comunità greco-cattolica, ben più diffusa in città, 50mila. «Se adesso l’emergenza profughi è ben incanalata, tutto cambierà non appena riapriranno le scuole e poi le temperature precipiteranno fino venti gradi sotto zero», avverte l’arcivescovo. Il primo campanello d’allarme suonerà a settembre quando è stato deciso di riprendere le lezioni in classe. «Solo che adesso i plessi sono tutti occupati dagli sfollati. Nessuno ha capito dove sa- ranno collocati. Non possono essere lasciati in balìa di se stessi…». E poi c’è l’inverno ucraino. «Molti edifici che li accolgono non hanno impianti di riscaldamento adeguati. La risposta è in un nuovo slancio collettivo e nella solidarietà». Davanti a sé l’arcivescovo ha Igor, adolescente del Donbass, che è un orfano di guerra ma che è riuscito a salvare il nonno sulla sedia a rotelle portandolo fino a Leopoli. Ora è stato adottato dalla diocesi. «Dobbiamo garantire loro un futuro, evitare che si sentano abbandonati, aiutarli a risanare le ferite di un conflitto che li ha costretti a crescere troppo in fretta». Ha il piglio energico Mokrzycki. Originario della Polonia, 61 anni, è stato secondo segretario di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI prima di iniziare nel 2008 la sua missione a Leopoli da cui guida anche la Conferenza episcopale ucraina che riunisce le sette diocesi latine del Paese.
Eccellenza, sempre più aree vengono evacuate. Il conflitto si intensifica?
Purtroppo non vediamo la fine della guerra. La Russia aumenta le incursioni. E cresce fra la gente un clima di incertezza e paura. Come Chiesa ci facciamo prossimi al popolo con il Vangelo della carità. Il bisogno aumenta ovunque, soprattutto dove le bombe cadono quotidianamente. Abbiamo zone che hanno necessità enormi e non vanno dimenticate.
E poi ci sono le famiglie divise: c’è chi fugge e chi invece resta lungo la linea del fuoco.
È una sofferenza. Cito la storia di un nostro seminarista, originario della regione di Kherson. I genitori sono riusciti a portare a Leopoli quattro figli e poi sono tornati sotto le bombe. «Perché?», ho chiesto. Perché là è rimasto il quinto fratello di 22 anni. Ecco, madre e padre sono andati «a nasconderlo», mi hanno detto: infatti non può uscire neppure per comprarsi da mangiare, altrimenti verrebbe arruolato dalle truppe di Mosca o ucciso. Una vita da clandestini nelle proprie terre.
Il Papa sarà in Ucraina?
Lo attendiamo tutti. La sua visita è una grande speranza. Il nunzio apostolico a Kiev ci ha confermato che Francesco intende venire. E le sue condizioni di salute sono positive. Non sappiamo se si fermerà a Leopoli o andrà simbolicamente a Kiev oppure a Irpin e Bucha. Certo, tutta l’Ucraina lo saluterà quando passerà con il treno. E a Putin dovremmo chiedere che almeno quel giorno ci sia un cessate il fuoco. Sarebbe un gesto significativo da parte del leader del Cremlino che è stato ricevuto più volte in udienza dal Papa.
Che cosa si aspetta il Paese dalla visita del Pontefice?
Francesco sta dalla parte di chi soffre, anche se non ha mai pronunciato il nome dell’aggressore. Poi la visita riporterà sulla ribalta internazionale il dramma del conflitto ucraino. È un modo per dire al mondo: non abituiamoci alla guerra. Ma soprattutto sarà fra noi il “Pietro dei nostri giorni”. Con lui c’è la forza di tutta la Chiesa. E della preghiera che fa miracoli e converte i cuori.
Il patriarca russo Kirill ha benedetto l’attacco. Ma in Ucraina la maggioranza dei cristiani ortodossi è legata alla Chiesa di Mosca.
Infatti non c’è stato un significativo passaggio di fedeli verso la Chiesa autocefala ortodossa ucraina. Il popolo che crede guarda alla bontà dei sacerdoti, non ai confini. Comunque oggi nelle comunità del patriarcato di Mosca in Ucraina non si pronuncia più il nome di Kirill durante la liturgia. Questo per dire che si è contro la guerra.
Ma le autorità hanno proibito il culto alla Chiesa ortodossa russa.
È un errore. Sembra di tornare al principio “Cuius regio eius religio”. La fede non può incontrare barriere politiche e territoriali. Come si può chiudere una chiesa perché è ritenuta straniera? Non facciamo ricadere sulla gente gli errori delle gerarchie.
Si respira un clima di vendetta?
Le sofferenze sono così tante e forti che minano i cuori. Penso alle famiglie che vedono un loro giovane tornare dal fronte dentro una bara. Rancori e frustrazioni si riverberano anche sui più piccoli. A un incontro di catechismo è stato chiesto ai bambini di fare una preghiera spontanea. C’è chi ha pregato per la madre sola, chi per i soldati della resistenza, chi per la pace. E uno ha detto: «Che Putin muoia come un cane». Noi cristiani siamo tenuti a ribadire che l’odio porta soltanto altro odio.
Quanto durerà la guerra?
Qualcuno sostiene che l’Occidente non fornisce armi sufficienti all’Ucraina perché la Russia non può perdere: altrimenti userebbe la bomba atomica. E poi c’è il tema del negoziato. Noi polacchi sappiamo bene che cosa significa cedere il territorio a Mosca, com’è accaduto dopo la seconda guerra mondiale. Possiamo accettare il sacrificio di un Paese democratico e indipendente per placare l’ingordigia di un invasore? Per di più Putin non si accontenterà solo di una parte dell’Ucraina: la vuole tutta. E dopo punterà verso un altro obiettivo.