di Michele Brambilla
La catechesi predicata da Papa Francesco alll’Udienza generale del 16 gennaio si sofferma su una delle poche espressioni del Nuovo Testamento che non è mai stata tradotta dall’aramaico: «“Abbà!”». È contenuta nel brano scritturistico letto come introduzione all’udienza stessa. «Abbiamo», ricorda infatti il Pontefice, «ascoltato ciò che scrive San Paolo nella Lettera ai Romani: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”” (Rm 8,15). E ai Galati l’Apostolo dice: “E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”” (Gal 4,6). Ritorna», quindi, «per due volte la stessa invocazione, nella quale si condensa tutta la novità del Vangelo», che è quella del riconoscimento della paternità di Dio tramite il Figlio incarnato.
Prosegue allora il Papa: «Dopo aver conosciuto Gesù e ascoltato la sua predicazione, il cristiano non considera più Dio come un tiranno da temere, non ne ha più paura ma sente fiorire nel suo cuore la fiducia in Lui: può parlare con il Creatore chiamandolo “Padre”. L’espressione è talmente importante per i cristiani che spesso si è conservata intatta nella sua forma originaria: “Abbà”», che in aramaico corrisponde precisamente al vezzeggiativo “papà”. Cristo chiamava quindi Dio Padre «Papà»: i cristiani sono chiamati ad avere nei Suoi confronti la medesima confidenza. «Per un cristiano, pregare è dire semplicemente “Abbà”, dire “Papà”, dire “Babbo”, dire “Padre” ma con la fiducia di un bambino».
Il modo con cui Dio esercita la propria paternità si coglie all’interno di una specifica pagina evangelica. «Il “Padre nostro” prende senso e colore se impariamo a pregarlo dopo aver letto, per esempio, la parabola del padre misericordioso, nel capitolo 15° di Luca (cfr Lc15,11-32). Immaginiamo questa preghiera pronunciata dal figlio prodigo, dopo aver sperimentato l’abbraccio di suo padre che lo aveva atteso a lungo, un padre che non ricorda le parole offensive che lui gli aveva detto, un padre che adesso gli fa capire semplicemente quanto gli sia mancato. Allora scopriamo come quelle parole prendono vita, prendono forza» e giungiamo a chiedere al Signore: «Tu non conosci l’odio? No – risponderebbe Dio – io conosco solo amore. Dov’è in Te la vendetta, la pretesa di giustizia, la rabbia per il tuo onore ferito? E Dio risponderebbe: Io conosco solo amore» per ogni creatura, persino la più peccatrice.
Chiosa Francesco: «Il padre di quella parabola ha nei suoi modi di fare qualcosa che molto ricorda l’animo di una madre». Un’altra celebre espressione dell’antico Israele, “rahanim”, si riferisce proprio alle “viscere materne” di Dio, che si struggono per il dolore dei Suoi figli. «Sono soprattutto le madri a scusare i figli, a coprirli, a non interrompere l’empatia nei loro confronti, a continuare a voler bene, anche quando questi non meriterebbero più niente», fino a giungere alla constatazione che «Dio ti cerca, anche se tu non lo cerchi. Dio ti ama, anche se tu ti sei dimenticato di Lui. Dio scorge in te una bellezza, anche se tu pensi di aver sperperato inutilmente tutti i tuoi talenti».