Un “caso difficile” anche per il commissario Maigret
di Valter Maccantelli
Nella notte tra lunedì 26 e martedì 27 settembre i sismografi svedesi hanno registrato forti esplosioni sottomarine in un’area poco fuori dalle acque territoriali danesi e, nelle ore successive, fonti militari danesi hanno comunicato la presenza di ingenti fuoriuscite di gas dovute a tre falle nel sistema di condotte del gasdotto North Stream, che porta il gas dalla Federazione Russa alla Germania e, da lì, attraverso le interconnessioni interne, in molti paesi UE. Se – e sottolineo il “se” – i fatti sono come ci vengono descritti sembra probabile che si sia trattato di un deliberato atto di sabotaggio e non di un incidente: la concomitanza e la vicinanza delle falle lasciano poco spazio alle coincidenze.
Come era ampiamente prevedibile è subito cominciata la guerra delle narrazioni, con un fuoco di fila, la cui rapidità appare già di suo sospetta, teso a dimostrare la matrice russa del sabotaggio mediante indignate richieste di indagini approfondite. Spiegazione, quella della pista russa, senza dubbio possibile, ma non unica, almeno se ci sforziamo di rompere il muro della propaganda che ha, oramai, totalmente sostituito l’informazione su tutto ciò che riguarda il fronte Est.
E’ d’obbligo premettere che ad oggi (e forse mai ) nessuno può dire con certezza che cosa sia successo nel Baltico e chi ne è eventualmente il responsabile, in un campo e nell’altro. Quindi le considerazioni che possiamo svolgere su queste basi sono per forza di cose basate su elementi “indiziari” e su ragionamenti deduttivi, possibilmente nel perimetro della logica. Più un’occasione di riflessione geopolitica che la volontà di individuare o indicare possibili colpevoli.
Secondo questi criteri, nella lista dei sospetti la Federazione Russa non sembra occupare il primo posto. Si è detto da più parti che Mosca sarebbe il principale beneficiario dei danni generati dall’interruzione del flusso e che il suo scopo è quello di fiaccare e dividere il fronte europeo a sostegno dell’Ucraina. Questo è potenzialmente vero, ma gli svantaggi sembrano superare decisamente i benefici. Putin può usare l’arma del gas per questo scopo, ma questa, come qualsiasi altra arma, per essere efficace deve essere in grado di funzionare. Il gasdotto North Stream era rimasto praticamente l’unica via di comunicazione energetica che collegava direttamente i giacimenti russi con i Paesi UE senza passare per l’Ucraina. Alla Russia era probabilmente più utile gestire il rubinetto piuttosto che far saltare il tubo. In questo modo la minaccia era modulabile e negoziabile: oggi, di fronte a danni che alcuni definiscono irreparabili, tutto questo non è più possibile. Secondo questa logica la Russia appare come parte lesa più che come responsabile, anche perché quasi tutti i Paesi riceventi si stanno comunque organizzando per emanciparsi dalla dipendenza energetica russa e, nel lungo periodo, magari dopo una fase negoziale, con l’impossibilità di ripristinare contratti e forniture, il danno maggiore sembra ricadrà ad Est più che a Ovest.
Nella lista dei sospetti non solo la Russia non è il primo, ma non è neanche l’unico. Sottolineo ancora che siamo nel perimetro dei ragionamenti deduttivi su base indiziaria. In ogni indagine poliziesca che si rispetti, se c’è un morto ammazzato, la prima domanda che ci si pone è se il defunto aveva dei nemici. E il defunto North Stream di nemici ne aveva parecchi, ma fra questi non c’era la Russia.
Gli Stati Uniti d’America non hanno mai fatto mistero della loro contrarietà alla costruzione e al raddoppio del gasdotto baltico, che portava valuta pregiata all’arcinemico russo e rafforzava la posizione economica della Germania, alleato prezioso ma sempre alla ricerca di partnership orientali (come Russia e Cina) in grado di sostenere la sua postura mercantilista indipendentemente dal gradimento di Washington. A gennaio, prima del fatidico 23 febbraio, sia il presidente Joe Biden in prima persona che il suo sottosegretario di Stato, Victoria Nuland, avevano apertamente ventilato l’ipotesi di una chiusura forzosa di North Stream. A questo un investigatore sospettoso aggiungerebbe il fatto che la reazione americana alla notizia delle esplosioni è stata tempestiva ed estremamente pronta: Il segretario di Stato, Tony Blinken, ha immediatamente commentato che è oramai un imperativo «porre fine alla dipendenza dal gas russo in Europa» e fonti di stampa riportano che numerose navi gasiere sono già in viaggio dagli Stati Uniti (primo produttore mondiale di GNL) verso l’Europa.
Se poi abbandoniamo i classici dell’investigazione e scadiamo sul più casereccio (ma non per questo meno saggio): “gallina che canta ha fatto l’uovo”, i riflettori si puntano da soli sulla Polonia, oggi principale alleato USA, storico nemico della Russia e orgoglioso competitor della Germania. Già in tempi non sospetti la Polonia (insieme ai Paesi baltici) aveva mal digerito la costruzione e l’espansione di North Stream, che permetteva di stabilire una comunicazione diretta fra Russia e Germania senza pagare royalties di passaggio a nessuno, principalmente alla Polonia stessa, cosa vista come uno sgambetto tedesco allo sviluppo economico polacco. Tanto che Varsavia ha deciso di costruirsi un’alternativa, che le permettesse di prescindere dai suoi ingombranti vicini. Si tratta del gasdotto Baltic Pipe, che trasporta il gas dei giacimenti norvegesi direttamente in Polonia attraverso l’arcipelago danese, approdando sulle coste del Golfo di Pomerania. Il Baltic Pipe è stato inaugurato lo scorso 27 settembre, stesso giorno del guasto a North Stream, e rende oggi la Polonia l’unico Paese europeo effettivamente indipendente dalle forniture russe, nonché il detentore dei diritti di passaggio dell’unico gasdotto rimasto per portare il gas russo in Germania, Jamal-Europe.
Fin qui nulla di strano: al contrario, la Polonia sta cogliendo, forse in maniera inaspettata, i frutti di una visione politicamente lungimirante ed economicamente accorta nella propria strategia di approvvigionamento energetico, cose totalmente assenti dal panorama politico italiano.
Quello che colpisce però è il neppure celato entusiasmo mostrato da esponenti di rilievo della politica e dell’economia polacca alla notizia delle esplosioni nelle condotte di North Stream. Il primo ministro Mateusz Morawiecki è stato praticamente il primo a dichiararsi certo della natura dolosa delle esplosioni, a poche ore di distanza dai fatti, e a puntare il dito su Mosca. Ma la cosa è ancora spiegabile con il legittimo desiderio di fare un’affermazione politica, come avviene in ogni Paese del mondo. Più imbarazzanti sono le esternazioni come quella dell’ex-ministro degli Esteri di Varsavia, Radosław Sikorski, che lo stesso 27 settembre ha postato un tweet dove sopra una foto dell’eruzione di gas fuoriuscito da North Stream, nel Baltico, campeggia la scritta «Thank you USA», aggiungendo che «tutti gli Stati baltici e l’Ucraina si sono opposti alla costruzione di Nord Stream per venti anni. Ora 20 miliardi di dollari di rottami metallici giacciono sul fondo del mare, un altro costo per la Russia e la sua decisione criminale di invadere l’Ucraina», chiosando con un derisorio: «Qualcuno ha eseguito un’operazione di manutenzione speciale nel Mar Baltico». Un tifo praticamente da stadio per quello che lui stesso definisce un sabotaggio.
Tutto questo non per indicare un responsabile, posto che ce ne sia uno, ma per augurarsi che nelle scrupolose indagini, che certamente ci saranno, anche se non si raggiungeranno i vertici dell’acume del commissario Maigret, si evitino almeno le topiche dell’ispettore Clouseau.
Venerdì, 30 settembre 2022