La ricerca di una definizione per il pontificato e gli ultimi anni di B-XVI porta a una sola parola: purificazione
Purificazione. La ricerca di una parola sintetica per definire i quasi otto anni di pontificato di Benedetto XVI e gli altri quasi dieci da Papa emerito conduce a questo risultato: purificazione. “Chiunque ha questa speranza si purifica come egli è puro”. Questo versetto del Vangelo di Giovanni può ben descrivere la traiettoria, la tensione, il programma, l’opera e la vita di Joseph Ratzinger. Un divenire, non una precondizione.
Commentando l’enunciazione “ecclesia sempre reformanda” in Rapporto sulla fede (libro-intervista con Vittorio Messori) Ratzinger citava una preghiera della messa: “Domine Jesu Christe […], ne respicias peccata mea, sed fidem Ecclesiae tuae”; cioè: “Signore Gesù Cristo, non guardare ai miei peccati, ma alla fede della tua Chiesa”, sottolineando come fosse “l’invocazione obbligatoria di ogni sacerdote: i vescovi, il Papa stesso alla pari dell’ultimo prete dovevano pronunciarla nella loro messa quotidiana. E anche i laici, tutti gli altri membri della Chiesa, erano chiamati a unirsi a quel riconoscimento di colpa. Dunque, tutti nella Chiesa, senza alcuna eccezione, dovevano confessarsi peccatori, invocare il perdono, mettersi quindi sulla via della loro vera riforma”. Allora “riforma vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove facciate, ma (al contrario di quanto pensano certe ecclesiologie) riforma vera è darci da fare per far sparire nella maggiore misura possibile ciò che è nostro, così che meglio appaia ciò che è Suo, del Cristo […] è di santità, non di management che ha bisogno a Chiesa per rispondere ai bisogni dell’uomo”.
Di questo tipo di riforma della componente umana della Chiesa, eletto Pontefice, fece il suo programma di governo: “Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia” (Omelia della messa di insediamento, 24 aprile 2005).
Purificazione. Nell’opera e nel pensiero dell’uomo che fu Papa dal 2005 al 2013 questa parola non ha però il significato prettamente morale con cui la accogliamo abitualmente, ma piuttosto quello quasi chimico dell’eliminazione delle scorie, delle incrostazioni del pensiero e del cuore, con tutte le conseguenze etiche che ciò comporta.
Quanto e in che cosa Joseph Ratzinger/BenedettoXVI ha purificato la Chiesa? Per rispondere a questa domanda bisogna partire da una data anteriore di quarantaquattro anni la sua elezione a Papa: il 20 novembre 1961. E’ la data del suo primo contributo “ufficiale” alla purificazione della Chiesa. Quel giorno il cardinale Josef Frings lesse a Genova, dove era stato invitato dal cardinale Giuseppe Siri, una relazione su “Il Concilio e il mondo del pensiero moderno” scritta da un giovane sacerdote bavarese.
Giovanni XXIII apprezzò a tal punto quel testo da convocare l’arcivescovo di Colonia per dirgli: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Le parole per indicare in anticipo la strada del rinnovamento conciliare le aveva trovate l’allora trentaquattrenne don Joseph Ratzinger.
A quelle parole e a quel percorso di purificazione è rimasto fedele sino alla fine. Nel libro intervista Ultime conversazioni, che è del 2016, a chi lo rimproverava di aver abbandonato il progressismo teologico degli inizi, Benedetto XVI ormai Papa emerito rispondeva: “Io sono rimasto lo stesso, sono loro che sono cambiati”.
Vent’anni dopo quel discorso, il 25 novembre 1981, Giovanni Paolo II nominò Joseph Ratzinger prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, togliendo dalla diocesi di Monaco. Il “teenager della teologia” (copyright Giovanni XXIII) era diventato il “custode dell’ortodossia”.
La sua prima sfida da prefetto fu quella della teologia della liberazione (o almeno di un suo filone), una contaminazione ideologica che imbeveva di marxismo e di sociologia la “scelta preferenziale per i poveri” operata dal Concilio Vaticano II. Interi episcopati latino-americani ne furono affascinati, molte congregazioni religiose videro svuotarsi i conventi e non pochi preti e suore teorizzarono e praticarono la lotta di classe quando non addirittura la guerriglia in armi. Il culmine simbolico dell’inconciliabilità di questa posizione con il cattolicesimo apostolico si ebbe durante la visita di Papa Wojtyla in Nicaragua, quando Giovanni Paolo II redarguì pubblicamente, agitandogli imperiosamente il dito indice davanti alla faccia, il sacerdote Ernesto Cardenal, ministro della Cultura del governo sandinista. Joseph Ratzinger in quegli anni sostenne teologicamente la “reconquista” cattolica dell’opera della Chiesa per la giustizia sociale, purificandola dagli elementi ideologici che la snaturavano.
Da cardinale prefetto affrontò anche la sfida della trasmissione della fede presiedendo la commissione per il Compendio del nuovo catechismo della Chiesa cattolica.
L’ansia di rinnovamento degli anni del post Concilio aveva trovato soprattutto nel “Nuovo catechismo olandese” uno dei suoi strumenti. Imitazioni grossolane e accomodamenti culturali produssero corsi di catechesi in cui regnavano sociologismi e confusione. Interrogati sui contenuti della fede molti cattolici praticanti non sapevano rendere conto di ciò in cui credevano.
L’11 ottobre 1992 Papa Wojtyla consegnava ai fedeli di tutto il mondo il nuovo “Catechismo della Chiesa cattolica”, presentandolo come un “testo di riferimento per una catechesi rinnovata alle vive sorgenti della fede”. Restaurazione dottrinale? Valuti chi legge (ponendo bene attenzione ai verbi). Giovanni Paolo II lo definì una “esposizione completa e integra della dottrina cattolica, che consente a tutti di conoscere ciò che la Chiesa stessa professa, celebra, vive, prega nella sua vita quotidiana”.
Come rendere accessibili e comprensibili a tutti 2.865 pagine di dottrina? Ratzinger innanzitutto avverte che non si tratta di un’operazione intellettuale, perché gli apostoli “hanno visto ciò che hanno predicato”. Lo scriverà nella sua prima enciclica (Deus caritas est, 2005): “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una presenza, con una persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, una direzione decisiva. E lo ribadirà in un’intervista del 2016: “La fede non è un prodotto della riflessione”.
Non si capisce lo strumento del Compendio se non si riflette sulla parola che Ratzinger vi ha apposto all’inizio: dialogo. Così, dopo due anni di lavoro la commissione da lui presieduta ha scritto la sintesi del catechismo, nella forma di un dialogo. “Una sequenza incalzante di interrogativi, che coinvolgono il lettore invitandolo a proseguire nella scoperta dei sempre nuovi aspetti della verità della sua fede”. Perché la fede, che nasce da un incontro, si sviluppa nel dialogo tra “un maestro e un discepolo”. Ed è un “dialogo ideale” offerto e proposto a tutti: “A quarant’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II e nell’anno dell’Eucaristia, il Compendio può rappresentare un ulteriore sussidio per soddisfare sia la fame di verità dei fedeli di tutte le età e condizioni, sia anche il bisogno di quanti, senza essere fedeli, hanno sete di verità e di giustizia” (dall’introduzione di Joseph Ratzinger).
Il Nuovo catechismo e il suo Compendio non furono quindi un’opera di restaurazione ma, ancora, di purificazione da fattori estranei all’avvenimento cristiano e nello stesso tempo di adeguamento comunicativo all’evoluzione dei tempi. Sempre nell’introduzione Ratzinger scrisse: “Una terza caratteristica è data dalla presenza di alcune immagini, che scandiscono l’articolazione del Compendio. Esse provengono dal ricchissimo patrimonio dell’iconografia cristiana. Dalla secolare tradizione conciliare apprendiamo che anche l’immagine è predicazione evangelica. Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza. È un indizio questo, di come oggi più che mai, nella civiltà dell’immagine, l’immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico”.
Benedetto XVI non beveva vino né birra, neanche quella della sua amata Bavaria. Il fatto è confermato da numerosi testimoni. Una vulgata narra che non bevesse alcolici “per poter essere perfettamente lucido in ogni momento”. Vera o no che sia, è certo che una ragione mantenuta pura da annebbiamenti fisici o ideologici è stata la barra del suo pensiero, del suo insegnamento, della sua pastorale. La fede purifica la ragione, ha detto nella Deus caritas est, in quanto “permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio”. Questo, più che attaccare l’islam, ha spiegato anche a Regensburg (2006), mostrando come l’incontro tra la fede cristiana, il Dio biblico e il logos greco ha generato una civiltà per l’uomo. Questo ha ripetuto a Parigi al Collège des Bernardins (2008), spiegando che il monachesimo benedettino, con l’unico intento di “quaerere Deum”, ha salvato la cultura antica e fondato l’Europa.
Questo ha detto a Westminster al Parlamento inglese (2010), ricordando che il contributo della fede e della religione alla vita pubblica è una ricchezza e non un problema.
Questo ha, infine, proclamato al Bundestag di Berlino (2011) indicando nella laicità del pensiero politico cristiano il fondamento del diritto, che riconosce “come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione”.
Anche la sua opera di purificazione morale è iniziata prima dell’elezione a Papa. Tutti ricordano, anche se non nella versione integrale, il grido risuonato durante la nona stazione della Via Crucis del 2005, l’ultima di Giovanni Paolo II: “Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!”. Le conseguenze di quell’invettiva (sia detto anche a dispetto del suo carattere) si sono viste nell’inchiesta su padre Marcial Maciel Degollado, nella sua condanna e nel commissariamento dei Legionari di Cristo da lui fondati. Si sono viste nella lotta alla pedofilia culminata nella lettera ai cattolici irlandesi e nel cambiamento della struttura e di tutta la gerarchia ecclesiastica di quel paese. Si sono viste nella reiterata denuncia del carrierismo degli ecclesiastici che ha aperto la strada all’auspicata riforma della Curia di cui si è fatto carico il suo successore. Il vertice della sua opera di purificazione Benedetto XVI l’ha raggiunto umiliando sé stesso e portando alle estreme conseguenze la concezione del papato come servizio. Confessando il suo indebolimento “nel corpo e nell’animo” ha accusato davanti al mondo la sua sopraggiunta “incapacità di amministrare bene il ministero” affidatogli.
Non che l’ansia della purificazione l’abbia abbandonato nel suo “retiro”, anzi. Per gli immemori vale la pena ricordare le parole che pronunciò nella sua ultima udienza, il 27 febbraio 2013, davanti a una piazza San Pietro gremita di gente. “Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia. […] Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! […] Il ‘sempre’ è anche un ‘per sempre’ – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio. Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione”. La preghiera e la riflessione, quando ascoltai dal vivo queste parole pensai: continuerà a scrivere, non si è condannato al silenzio. E per fortuna. Agli inizi del 2019, con un documento lucidissimo, ha sostenuto la battaglia di Papa Francesco, ma iniziata da lui, sulla pedofilia nella Chiesa. (Anche se alcuni hanno interpretato i suoi Appunti come un’intromissione, di cui invece Francesco e il segretario di stato cardinale Pietro Parolin erano informati e sulla cui pubblicazione erano consenzienti.) Lo ha fatto a suo modo, riportando la questione alle sue origini, in quell’intreccio tra natura della fede e storia di cui è stato grande maestro: il collasso di una teologia morale ormai disancorata dall’avvenimento della rivelazione che definiva la morale in base agli scopi e alla situazione, il relativismo che ne è conseguito; l’assorbimento acritico delle istanze di liberazione, anche sessuale, del Sessantotto, dove si arrivò a giustificare culturalmente la pedofilia come “permessa e conveniente”; la caduta delle vocazioni e il cambiamento di impostazione educativa nei seminari. Non è questa l’occasione di ripercorre tutte le trentaseimila battute di quel testo, bastino due punti: l’occasione che l’ha suscitato, la convocazione in Vaticano dei presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo “per riflettere insieme sulla crisi della fede” a seguito dello scandalo della pedofilia, e il focus intorno a cui si sviluppa tutto il suo contributo e che ne determina anche l’approdo: c’è un bene che la Chiesa deve proteggere anche giuridicamente, ed è proprio il dono della fede. E’ questo il grande bene che è in gioco, dalla sua assenza derivano le gravi colpe dei chierici. In un mondo senza Dio, e senza la rivelazione che ne ha svelato la natura, l’amore, viene meno il senso del bene e del male, viene meno la libertà dell’uomo che senza quel senso perde l’orientamento, si è così in balìa del potere dominante dell’epoca, e la nostra epoca ha fatto fuori Dio dalla vita pubblica. La questione allora, oltre alle riforme canoniche, è ancora una volta il rinnovamento della fede in modo che gli uomini tornino consapevoli delle manifestazioni di Dio. Che Dio, cioè, ritorni ad essere non il presupposto della nostra morale, ma “il centro del nostro pensare parlare e agire”. E’ questa – ribadisce in quello che, insieme alla lettera in risposta al dossier sui casi di preti pedofili nella diocesi di Monaco che lo tirò in ballo pretestuosamente, possiamo considerare il suo testamento spirituale – la riforma di cui ha bisogno la Chiesa. “Creare un’altra Chiesa affinché le cose possano aggiustarsi” è un “esperimento che è già stato fatto ed è già fallito”, “non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi”, “una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza”, sarebbe solo un “apparato politico”, che è già il modo con cui viene considerata da molti. “Noi ci facciamo signori della fede, invece di lasciarci rinnovare e dominare dalla fede”.
In questo testo Benedetto XVI non cita il versetto del Salmo 62 che dice: “la tua grazia vale più della vita”, ma vi fa chiaramente riferimento quando scrive: “Ci sono beni che sono indisponibili. Ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata dal rinnegamento di Dio, una vita basata su un’ultima menzogna, è una non vita. Il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Che esso in fondo [nelle teorie sostenute da molti] non sia più moralmente necessario mostra che qui ne va dell’essenza stessa del cristianesimo”. E questa testimonianza nel mondo – ripete con forza – non la creiamo noi con le nostre riforme, non la origina né il Papa né la gerarchia: “Anche oggi Dio ha i suoi testimoni (martyres) nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli. […] Fra i compiti grandi e fondamentali del nostro annuncio c’è, nel limite delle nostre possibilità, il creare spazi di vita per la fede, e soprattutto il trovarli e il riconoscerli”.
Anche nascondendosi al mondo negli ultimi dieci anni della sua vita, Benedetto XVI ha voluto riaffermare che la Chiesa “è nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo”. Quel Dio a cui Joseph Ratzinger si è rivolto nel primo dei suoi libri su Gesù di Nazaret – “Il tuo volto, Signore, io cerco” – ora gli è faccia a faccia.