Di Andrea Morigi da Libero del 08/02/2023
Salman Rushdie sa come si vive – e si scrive – da capro espiatorio, senza essere sacrificato in un sol colpo, ma giorno dopo giorno. Il 75enne scrittore angloindiano lo racconta a David Remnick, il direttore della rivista New Yorker, dopo essere sopravvissuto a un agguato mortale che lo ha reso orbo da un occhio e gli ha tolto l’uso di una mano. Però nemmeno stavolta sono riusciti a ucciderlo. Anzi, se è vero che nel mondo dei ciechi regna chi vede da un solo occhio, dalla sua penna è uscito un nuovo romanzo, La città della vittoria (tr. it. Mondadori, 358 pp., 22 euro), che aspira ad essere il suo capolavoro mitopoietico. Anche nell’Edda, in fondo, il dio Odino è privo della vista binoculare ma è solo così che riesce a ottenere una visione più profonda della realtà.
L’ASCESA E IL DECLINO
Allo stesso modo la quindicesima opera di Rushdie, da ieri nelle librerie e sui siti di commercio online anche in traduzione italiana, ci presenta come protagonista una narratrice e poetessa cieca, che crea una nuova civiltà con la sola forza della sua immaginazione. Benedetta dalla dea dell’induismo Parvati, la moglie di Shiva, di cui è un’incarnazione e chele trasmette enormi poteri, vive quasi 250 anni, una longevità che è un dono e una dannazione, ma le consentirà di assistere all’ascesa e alla caduta del suo impero nel sud dell’India. Quando tutto finisce per crollare – un kali-yuga che conoscono tutti i cicli umani e anche soprannaturali – la sua eredità si tramanda racchiusa in un poema epico. «Tutto ciò che rimane è questa città di parole», scriverà la poetessa Pampa Kampana alla fine della sua epopea, che seppellisce in un vaso come messaggio per le generazioni future: «Le parole sono le uniche vincitrici». Che sia un riflesso soprannaturale del Verbo che viene ad abitare la Terra o semplicemente una saga di amore, avventura e mito, che testimonia il potere della narrazione, d’ora in poi starà ai critici stabilirlo. Di certo Rushdie non andrà in giro a presentare il libro, visto che la sua ultima uscita in pubblico, il 12 agosto scorso, è coincisa con l’agguato che per poco non gli ha tolto la vita a Chautauqua, nello Stato di New York. Sul suo capo pende ancora la spada dell’islam, cioè la fatwa con la quale la guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, lo condannava a morte per aver scritto i Versetti satanici, il romanzo del 1988 che lo rese famoso in tutto il mondo. In realtà, il successo si è rivelato subito una medaglia a due facce. C’è stato chi ha insinuato che non avrebbe mai avuto lettori se non fosse stato minacciato. Come se a Teheran volessero fargli pubblicità, insomma. Invece, già dai tempi dell’università, lo scrittore inglese E. M. Forster, al quale si deve il celebre Passaggio in India, gli aveva predetto che «il grande romanzo sull’India sarebbe stato scritto da un autore di origini indiane ma di formazione occidentale». Forse si riferiva proprio a lui, che iniziava allora a muovere i primi passi nel mondo della letteratura. Poco importa se l’allora principe Carlo d’Inghilterra, inconsapevole del valore narrativo della sua opera avesse ritenuto piuttosto naturale che Rushdie facesse una brutta fine, esprimendosi in modo poco regale: «Che cosa ti dovresti aspettare, dopo aver insultato le convinzioni più profonde delle persone?» Ateo dichiarato dall’età di quindici anni, benché cresciuto in una famiglia di fede islamica, l’autore ha effettivamente tentato di rappresentare negli ultimi decenni un’alternativa culturale credibile alle fedi religiose, affermando di non avere bisogno del concetto di Dio per spiegarsi il mondo in cui vive e di ritenere l’idea del sacro «una delle più conservatrici» perché «cerca di trasformare in crimini le altre idee come l’incertezza, il progresso, il cambiamento». Non si era ancora accorto dell’esistenza parallela di un relativismo aggressivo, che perseguita i credenti di ogni religione. E non aveva capito che la sua ideologia secolarista poteva divenire la giustificazione dell’emarginazione e del martirio sofferto dai musulmani, dai cristiani, dagli induisti e dai seguaci di confessioni e nuovi movimenti, negando il principio della libertà religiosa e i diritti dell’uomo.
IL CAPRO ESPIATORIO
Perché è proprio il vedere gli altri come mostri, si potrebbe commentare parafrasando lo scomparso René Girard, che si «porta a compimento la tendenza di tutti i persecutori a proiettare i mostri da loro percepiti in una crisi, in una sciagura pubblica o persino privata, su un qualche infelice la cui infermità o estraneità suggerisce una particolare vicinanza al mostruoso». Ora che è divenuto lui stesso il capro espiatorio, Rushdie fa i conti con una struttura di colpa e perdono che sembra impossibile sradicare dalla natura umana. Anche nell’ultimo romanzo, quindi tenta di riprendere alcune parole d’ordine della modernità come se obbedissero a un ordine fissato nei cieli. Il compito che la dea Parvati assegna alla regina Pampa Kampana è quello di garantire alle donne un potere paritario in un mondo patriarcale. Insomma, anche gli atei dimostrano di aver bisogno, quanto meno nella finzione letteraria, di una dimensione che trascenda l’esistenza terrena. E così facendo si contraddicono. Oppure si convertono.