Filippo Giorgianni, Cristianità n. 417 (2022)
L’attualità dell’organizzazione dei cattolici nella società di oggi è il tema che fa da sfondo, come esplicitato fin dalle prime pagine, a un’opera scritta da Marco Invernizzi, responsabile nazionale di Alleanza Cattolica, che vuole ricostruire la vicenda storica dell’Opera dei Congressi.
Il volume si apre (pp. 7-12) con una Prefazione di Dario Caroniti, ordinario di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Messina, che evidenzia le ragioni ultime della pubblicazione e descrive il rapporto fra i cattolici e lo Stato italiano da un punto di vista in apparenza parzialmente diverso da quello di Invernizzi. Questi vede nell’Opera dei Congressi un possibile modello di azione dei cattolici nella società che parte «dal basso», laddove il prefatore evidenzia che una tale azione debba prendere le distanze dalle inevitabili interferenze della politica statale e secolaristica che, del resto, avrebbero «corrotto» l’azione sociale dei cattolici già dopo il Risorgimento a misura del desiderio da parte di essi di trovare una rappresentanza politica nello Stato pluralistico.
Invernizzi — dopo aver chiarito nell’Introduzione (pp. 13-14) le intenzioni del libro, nato anche in seguito a un interesse personale, risalente ai tempi dell’università — inquadra nel primo capitolo, Il mondo cattolico italiano dopo l’Unità (pp. 15-22), la storia dell’Opera dei Congressi nel più ampio quadro del fallimento del cosiddetto neo-guelfismo, vale a dire l’ipotesi di costruire un’unità italiana di tipo federativo, rispettosa tanto delle radici cristiane del Paese, quanto delle esperienze pregresse degli Stati pre-unitari. L’intenzione aggressiva del Regno sabaudo, accompagnata anche dall’unitarismo del radicalismo repubblicano, allorché prende il sopravvento, finisce per marginalizzare le ipotesi neo-guelfe, costringendo i cattolici che vi si erano riconosciuti a cercare un nuovo tipo di organizzazione. Nello specifico, una prima divisione sorge fra la minoranza di conciliatoristi che, pur conservatori — e non cattolico-liberali —, intendono trovare uno sbocco politico all’interno delle istituzioni statuali unitarie, prospettando la eventuale costituzione di un partito conservatore cattolico, e gli intransigenti, per varie ragioni comunque non legittimisti, che cercano altre modalità di tutela degli interessi dei cattolici nella società post-unitaria, trovando come fonte d’ispirazione il Congresso dei cattolici europei svolto a Malines, in Belgio, nel 1863. Essi fondano nel 1865 una prima associazione nazionale che, pur rimanendo un riferimento per la futura Opera dei Congressi, viene sciolta dopo pochi mesi a causa delle persecuzioni — arresti, minacce, perquisizioni — da parte del governo italiano. L’autore quindi, nel secondo capitolo, Le associazioni precedenti l’Opera dei Congressi (pp. 23-26), concentra la propria attenzione sulla Società della Gioventù Cattolica Italiana, fondata nel 1867 da Giovanni Acquaderni (1839-1922) e dal pugnace conte Mario Fani (1845-1869), nella cui biografia spicca l’episodio, ricordato da Invernizzi, dell’opposizione armata dello stesso Fani e di altri sodali nei confronti di un gruppo di garibaldini penetrati nella città di Viterbo per cercare, invano, di sollevare la popolazione contro il governo pontificio. La Società della Gioventù Cattolica Italiana, che si dà per motto «Preghiera, azione, sacrificio», viene approvata dal beato Pio IX (1846-1878) nel 1868 e affiancherà, superandola per durata, l’Opera dei Congressi sino alla fondazione dell’Azione Cattolica Italiana, nella quale confluirà come ramo giovanile dal 1922.
Ciò che caratterizza i cattolici in questo periodo — come descritto nel capitolo su Le diverse fasi della storia dell’Opera dei Congressi (pp. 27-30) — è il passaggio da una condizione di passività, dettata dalla mancata abitudine a un confronto/scontro con la novità storica di un potere politico e di una cultura secolare ideologicamente ostili, a una condizione invece militante nei confronti del nuovo Stato e della sua ispirazione ideologica, militanza che darà vita a quello che si definirà il «movimento cattolico», vale a dire il «laicato militante nell’epoca della Rivoluzione» (p. 28). Il movimento cattolico nasce quando i cattolici prendono atto di non coincidere più con l’intero Paese, bensì di esserne solo una parte — per quanto maggioritaria —, per di più considerata sovversiva dalle istituzioni unitarie. Come evidenzia l’autore analizzando i primi anni dell’Opera, più precisamente La Presidenza Acquaderni (1874-1878) (pp. 31-39), l’idea della fondazione dell’Opera dei Congressi vera e propria prende corpo in seguito alla formulazione da parte della Santa Sede — dopo la Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 con cui il Regno d’Italia aveva abbattuto il potere temporale pontificio — del cosiddetto «non expedit», ovvero l’invito ai cattolici ad astenersi da ogni partecipazione elettorale nazionale. Se però l’annuncio della preparazione di un Congresso viene dato il 7 ottobre 1871 dalle colonne di un giornale intransigente bolognese, l’Unione, l’effettiva convocazione dello stesso avviene solo nel 1874, dal 12 al 16 giugno, a Venezia. In quell’occasione l’Opera, forte della presenza di 105 sigle di associazioni cattoliche e di 44 circoli della Gioventù Cattolica, dichiarerà di essere estranea tanto alla transigenza — e al cattolicesimo liberale —, quanto al legittimismo, individuando il proprio carattere puramente e semplicemente cattolico, nonché nazionale; elencherà quindi i propri scopi, ovvero la creazione di nuove opere di solidarietà e, registrando l’ostilità dello Stato, il conseguente invito a tutti i cattolici a organizzarsi per difendere la libertà della Chiesa, specialmente attraverso la già esistente Società della Gioventù Cattolica. L’Opera, sotto la presidenza di Acquaderni, si dota subito di un comitato permanente e, soprattutto, indìce un Congresso annuale, immaginando sé stessa come un insieme ordinato di associazioni. Il terzo Congresso, tenuto a Bologna, verrà sospeso dopo nemmeno un giorno perché sciolto dal prefetto, sicché le questioni più spinose saranno trattate unicamente nel quarto raduno, quello tenutosi a Bergamo nel 1877, dove, unitamente a dotti interventi di natura dottrinale, l’Opera rifiuterà categoricamente, anche riguardo alle elezioni amministrative, di sostenere candidati che non fossero «cattolici puri», invitando quelli fra di essi di censo più alto a candidarsi nei municipi.
Alla morte di Pio IX si entra in una nuova fase, ricostruita nel capitolo su La Presidenza Salviati (1878-1884) (pp. 41-49): se il congresso del 1878 salta in seguito al decesso del Pontefice, un quinto viene convocato l’anno seguente a Modena, dove sarà confermata la linea intransigente e astensionistica dei precedenti congressi e dove, di conseguenza, alcuni transigenti lasceranno l’Opera, tentando la via della formazione di un partito cattolico conservatore nazionale. Già da questo momento si intravedono, dunque, i germi di future divisioni. Alcuni degli esponenti più influenti, fra i quali soprattutto Giambattista Paganuzzi (1841-1923), vorranno strutturare l’Opera come un’espressione unitaria del movimento cattolico e non come un’associazione di associazioni rispettosa delle autonomie di ognuna. Nascono così malumori nella Società della Gioventù Cattolica di Acquaderni, che, anche per questo motivo, nel 1878 si dimette da presidente dell’Opera, nonostante quest’ultima formalmente intendesse ancora coordinare le attività delle varie associazioni senza sostituirvisi.
In ogni modo, negli anni della presidenza del duca Scipione Salviati (1823-1892) si struttura e si precisa l’organizzazione dell’Opera, divisa in comitati regionali, diocesani e parrocchiali, sotto la guida del Comitato permanente, che nel 1883 pubblica un manuale, significativo per comprendere la prospettiva dottrinale dei cattolici intransigenti, che denuncia in primis l’azione del processo rivoluzionario anticristiano contro la Chiesa in Italia a partire dal 1848. Il medesimo manuale pone all’Opera tre obiettivi prioritari: lo sviluppo di una «buona stampa» — sia libraria sia giornalistica —, la riappropriazione di comuni e province attraverso l’elezione di cattolici alle consultazioni amministrative e, infine, una buona formazione del laicato mediante l’apertura di scuole cattoliche. L’autore nota significativamente come, sebbene si rimarchi in quegli anni la differenza fra elezioni amministrative ed elezioni politiche per le quali vigeva il «non expedit», «[…] a lungo andare la partecipazione dei cattolici anche alle elezioni politiche sarebbe diventata inevitabile» (p. 46).
Nonostante l’egida delle gerarchie e l’influsso dei parroci, dopo l’iniziale entusiasmo, l’Opera registra una diffusione ancora limitata e insoddisfacente, anche a causa del clericalismo ostile di molti vescovi nei confronti del laicato impegnato. Invernizzi evidenzia come i problemi di salute di Salviati e il suo affidarsi a Paganuzzi portino alla rottura definitiva con Acquaderni, che esce dall’Opera durante il sesto congresso, svoltosi a Napoli nel 1883. In quell’occasione, pur ribadendosi la natura dell’organizzazione, che non concorre con le associazioni che la compongono, dietro proposta di Paganuzzi viene approvata dall’assemblea l’istituzione di sezioni giovanili dell’Opera dei Congressi, in aperta concorrenza con la Gioventù Cattolica, pur in disaccordo con lo stesso Comitato permanente e tentando di limitarne l’esistenza lì dove esistano già circoli della Gioventù Cattolica.
Queste prime avvisaglie di conflitto si fanno più evidenti con le dimissioni di Salviati e sotto la direzione di Marcellino Venturoli (1828-1903) — Invernizzi ne parla in La Presidenza Venturoli (1884-1889) (pp. 51-56). La divisione si polarizza fra il gruppo di Paganuzzi, deciso ad accentrare le attività del movimento nel Comitato permanente, e il gruppo afferente al conte Stanislao Medolago Albani (1851-1921), nipote del pensatore contro-rivoluzionario savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821) e fedele all’ispirazione originaria dell’Opera, sicché il primo si oppone alla divisione del Comitato permanente in cinque sezioni, proposta e ottenuta da Medolago e da Nicolò Rezzara (1848-1915).
Nonostante il rapporto di buona amicizia fra i due, vi sono differenti sensibilità, sebbene non divisioni dottrinali: Medolago vede nella Questione Sociale un problema ancora più grave della Questione Romana, mentre Paganuzzi continua a porre quest’ultima come priorità, pur preoccupandosi di quella sociale. In questa fase, comunque, la formazione di cinque sezioni del Comitato permanente permette a Medolago di curare quella economico-sociale (la Seconda), avvalendosi anche della collaborazione del beato Giuseppe Toniolo (1845-1918). Nello specifico, il Congresso di Lucca del 1887 appunterà la sua attenzione sul corporativismo come risposta cristiana al socialismo; tuttavia, pur ottenendo i cattolici un buon riscontro elettorale alle amministrative, l’Opera passa il peggior momento di crisi della sua esistenza.
L’autore introduce a questo punto la parte più corposa del volume riguardante le vicende de La Presidenza Paganuzzi (1889-1902) (pp. 57-95), seguita alle dimissioni di Venturoli, in un contesto politico mutato nel quale i governi liberali iniziano a comprendere di non poter «fare gli italiani» e di dover quindi venire incontro alle due famiglie sociali e politiche maggioritarie nel Paese: i cattolici e i socialisti. In quel frangente l’Opera assume un atteggiamento non meramente reattivo ma di riconquista, mentre Paganuzzi prova a portare avanti il suo disegno accentratore, nel tentativo di far diventare l’Opera una entità unica che rappresentasse tutti i cattolici e quindi coincidesse con l’intero movimento cattolico. Il Congresso di Vicenza del 1891 — anno della pubblicazione dell’importante enciclica sulla questione operaia di Leone XIII (1878-1903) Rerum novarum — registra un buon successo di pubblico ed evidenzia un maggior attecchimento territoriale dell’Opera e una minore diffidenza dei vescovi, specie nel Mezzogiorno, ma non risolve i dissidi interni — soprattutto con la Gioventù Cattolica —, che proseguono e conducono alla rottura fra Paganuzzi e il segretario del Comitato permanente, Pier Biagio Càsoli (1852-1905).
Nel decimo Congresso di Genova, nel 1892, l’Opera raccoglie i frutti dell’elaborazione dei cristiano-sociali Medolago e Toniolo, che conducono alla fondazione di centodue nuove Società Operaie cattoliche, oltre alle centinaia già esistenti, mentre la Questione Sociale diveniva sempre più centrale nell’Italia di quel periodo e anche nella vita dell’Opera dei Congressi, che su di essa concentrerà l’attenzione dei raduni del 1894. A ogni modo, l’Opera prende terreno non soltanto in Lombardia e in Veneto, ma anche in zone dove prima aveva avuto difficoltà, come in Piemonte e nelle regioni meridionali. Questa crescita si confronta pure con la necessità di arginare anche elettoralmente il socialismo tramite alleanze con i liberali nei comuni e nelle province, ma soprattutto di ricondurre le attività di questi enti territoriali — come i consigli scolastici a essi afferenti — verso una prospettiva cattolica. Infine, l’espansione dell’Opera comporta inevitabilmente un accrescimento dei contrasti interni — stavolta fra i cristiano-sociali, da un lato, e gli intransigenti di Paganuzzi e del gruppo dei veneti, dall’altro lato —, destinati a esplodere con l’avvicinamento all’Opera di don Romolo Murri (1870-1944) e dei suoi giovani universitari al Congresso di Fiesole (Firenze) del 1896. Questo avvicinamento significava, per di più, che si affiancavano due declinazioni interpretative diverse della Rerum novarum: una ispirata all’insegnamento tradizionale pontificio propria dei cristiano-sociali e l’altra invece democraticistica, propria del gruppo dei seguaci di Murri, pur ampiamente smentita da vari documenti pontifici, anche successivi, come la Graves de communi re, del 1901.
La crisi che condurrà allo scioglimento del movimento si acuisce fra il 1897 e il 1898: da un lato, l’Opera non accoglierà alcune proposte di Medolago, di Toniolo e di altri cristiano-sociali per un’azione più vigorosa nei confronti delle classi popolari, in modo da venire incontro parzialmente ai murriani, forse ancora recuperabili; dall’altro lato, le rivolte del 1898, culminate nella repressione milanese da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924), conducono a una dura persecuzione nei confronti del movimento cattolico — con la soppressione di vari Comitati, la chiusura di giornali e la denuncia di vari esponenti, fino all’arresto e alla condanna a tre anni di prigione di uno dei protagonisti, don Davide Albertario (1846-1902) — e una più netta spaccatura fra la dirigenza intransigente dell’Opera e i democratico-cristiani. L’Opera, a questo punto, vede ben quattro posizioni al suo interno: quella maggioritaria intransigente del vertice; quella cristiano-sociale, che intende riformare la società italiana ma guarda al modello corporativo medievale e convergerà sugli accordi elettorali con i liberali; la posizione di Filippo Meda (1869-1939), che non ha il medesimo orientamento culturale della seconda ma vuole preparare il passaggio alla partecipazione politica dei cattolici; infine, la posizione democratico-cristiana di Murri, che fin dal principio coltiva una certa ambiguità, accettando la democrazia rousseauiana e poi il modernismo.
Sebbene sia diffusa fra molti — tranne che nel gruppo di vertice di Paganuzzi — la comprensione della necessità di uno sbocco politico del cattolicesimo, specialmente per opporsi al pericolo socialista, un tale fine non viene da tutti perseguito al medesimo modo, trovandosi perfino chi, come i murriani, era disposto ad allearsi con chiunque si ponesse contro lo Stato liberale, alla luce dei soprusi da esso perpetrati sia contro i cattolici sia contro i lavoratori. Questa fase si conclude con l’intenzione, condivisa dal Papa e da gran parte dell’Opera, di mantenere i legami con i giovani murriani e di recuperarli in seno al movimento, al punto che il diciassettesimo Congresso, svoltosi a Roma nel 1900, sembra riuscire a ricomporre la frattura e a integrare i democratico-cristiani nell’Opera dei Congressi fino al 1902, quando Murri riacutizza la polemica verso Paganuzzi.
La parte ricostruttiva delle vicende del movimento si conclude con il capitolo ottavo (pp. 97-115) su La Presidenza Grosoli (1902-1904). Giovanni Gròsoli Pironi (1859-1937) subentra a Paganuzzi dopo la rinuncia all’incarico da parte di quest’ultimo per il riaffiorare delle divisioni con i democratico-cristiani. Gròsoli sembra dare garanzie di fedeltà alla Santa Sede, pur senza appartenere culturalmente agli intransigenti, e la sua nomina viene salutata dai cristiano-sociali come se vi fosse una perfetta unità di intenti, ma lo stesso Medolago dopo il diciannovesimo Congresso di Bologna del 1903 scriverà in modo radicalmente scettico a Toniolo, ritenendo che fosse difficile continuare a tenere i democratico-cristiani nell’Opera, nonostante il proprio gruppo avesse agito a lungo a tal fine. In effetti, nel 1904 in seno al Comitato permanente si consuma la frattura definitiva quando gli intransigenti, contro la linea della presidenza, riescono a far votare un ordine del giorno con il quale si evidenziano le divisioni interne all’Opera, mentre un secondo ordine del giorno, poi bocciato, intendeva minimizzare ottimisticamente la situazione del movimento. Da ultimo, tanto queste tensioni sempre più evidenti — relative in sostanza al rapporto fra il cattolicesimo e la modernità politica —, quanto il tentativo di Murri di scalare i vertici dell’Opera, lasciando insofferenti perfino figure accomodanti come Medolago, finiscono per convincere la Santa Sede a sopprimere l’Opera dei Congressi, lasciando in vita soltanto il secondo Gruppo, quello socio-economico, nel quale i cristiano-sociali proseguiranno il proprio sforzo di riflessione e di azione.
L’opera si chiude con tre appendici: nella prima, relativa a I principali protagonisti (pp. 117-240), figurano le biografie di novantuno fra i maggiori protagonisti del movimento cattolico; nella seconda vengono elencati I congressi promossi dall’Opera (pp. 241-242) e nella terza sono riportati gli Statuti dell’Opera dei Congressi negli anni 1875, 1881, 1901 (pp. 243-267). Chiude il volume un’ampia bibliografia ragionata (pp. 269-274).
Il quadro complessivo tracciato da quest’opera invita a indagini sulla materia più compiute e settoriali. Da esso appare un mondo cattolico diviso sia da differenze di giudizio sul periodo post-unitario, sia dalla politica italiana della Santa Sede — specialmente le difficoltà legate all’imposizione del «non expedit» —, sia, infine, dalle diverse interpretazioni della modernità politica e dalle risposte da fornire alla sfida posta da quest’ultima.
Filippo Giorgianni