Il Compianto di Niccolò dell’Arca è una delle rappresentazioni più struggenti del momento immediatamente successivo alla morte di Cristo. Un grido muto e assordante, prima che il dolore taccia per lasciar spazio alla Risurrezione.
di Stefano Chiappalone
Al nome dello scultore Niccolò dell’Arca (1435-1494) è legata una delle rappresentazioni più note e struggenti del Compianto sul Cristo morto, opera in terracotta eseguita tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del XV secolo e conservata nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna, città in cui l’artista – menzionato come de Apulia – visse e morì.
Sette statue a grandezza naturale incarnano lo strazio seguito alla morte del Signore. Al centro e a terra giace il corpo di Cristo immobile, da poco deposto dalla croce, con la testa ancora trafitta dalla corona di spine, ma già composto su una lettiga, con un prezioso cuscino verosimilmente, in vista dell’imminente trasporto al vicino sepolcro. Le concitate ore della Passione, l’orrore e l’agonia consumatasi sul Calvario rendono ancora più traumatico per la Madre e gli amici contemplare quel corpo amato e martoriato sapendo che di lì a poco dovranno separarsene. Chiunque abbia vissuto un lutto si riconoscerà in quell’ultimo saluto – desiderato e doloroso – alle spoglie mortali di chi ci ha lasciato, l’ultimo sguardo a un volto con cui abbiamo riso e condiviso, ma che non può più vederci (almeno, non con gli occhi del corpo) e che tra poco neanche noi vedremo più, una volta sigillata la pietra sepolcrale. Assistiamo qui al lutto dei lutti, alla morte delle morti – in duplice senso: la morte di Dio che assomma in sé quella di ogni uomo e che al contempo sconfigge e vanifica ogni morte.
A far da tramite tra i nostri lutti e il loro, c’è Giuseppe d’Arimatea, fisicamente e visivamente rivolto verso lo spettatore. Al centro c’è Giovanni, l’apostolo prediletto, con una mano sul volto a trattenere una smorfia di dolore. Dolore non trattenuto, anzi esploso nelle donne, a partire dalla Vergine Maria, che sembra far leva sulle mani giunte e torce il busto, riflettendo in tutta la sua persona il grido accorato alla vista di quel corpo esanime che un tempo aveva portato in grembo. Ma dal lato opposto all’immobile Giuseppe d’Arimatea vi è lo scatto fulmineo di Maria Maddalena, accentuato dal panneggio che pare portato dal vento, emettendo un grido impietosamente fissato nei secoli.
Un grido paradossalmente muto e assordante, che la materia custodisce e immobilizza come un fotogramma simile a quello strazio del cuore che a un certo punto esaurisce la voce e le lacrime.
Poi tutto tace. E nel muto dolore si apre una breccia che lascia presagire la speranza della Risurrezione.
Sabato, 8 aprile 2023