Di Stefano Caprio da AsiaNews del 03/06/2023
Gli attacchi dei droni sui palazzi moscoviti degli ultimi giorni hanno impresso al conflitto russo-ucraino un movimento decisamente più convulso e contraddittorio, dopo mesi di sterili e tragici bombardamenti, con infinite ripetizioni di vuota e roboante propaganda. Ci si chiede se sia giunto il momento della controffensiva, o della rivolta interna alla Russia, o perfino della macchinazione del potere, per imporre un livello definitivo di guerra totale. Come spesso accade dalle parti del Cremlino, le varianti si accavallano e si confondono, aprendo scenari alternativi che non necessariamente si escludono a vicenda.
L’Ucraina è ormai a un passo dal compimento del suo destino, quello di membro a tutti gli effetti della comunità internazionale, dell’alleanza occidentale e dell’Europa. La forza e il prestigio acquisito dalle sue istituzioni, dal suo esercito e dallo spirito popolare la esaltano a cercare una soluzione della guerra che costringa la Russia a chiudersi nel suo isolamento, senza più aggredire i vicini con i suoi sogni imperiali. Per questo sembrano muoversi forze di contrattacco, anche se per ora piuttosto indefinite, cercando il punto nevralgico su cui agire per disgregare le fila del nemico, finora apparse troppo preponderanti come numero e potenza di fuoco.
Allo stesso tempo si fanno largo i fiancheggiatori russi dell’Ucraina, che dall’estero e in Russia organizzano diverse azioni dimostrative, dalle incursioni di guerriglia nella regione di Belgorod alla giostra dei droni, su Mosca e altre città simboliche, cercando di far saltare i nervi all’apparato politico e militare del Cremlino. Questi “partigiani” fanno allo stesso tempo da controcanto e da accompagnamento ai “musicisti” delle compagnie private, termine derivato dal titolo lirico della “Wagner” di Prigožin, la principale istituzione di “potere alternativo” ormai in Russia. I guastatori come Ilja Ponomarev, un politico di opposizione russa che dall’estero organizza questi raid, escludono di potersi alleare con i mercenari, ma l’effetto finisce per coincidere, indebolendo la credibilità del regime putiniano.
Non mancano le ipotesi di macchinazione architettata direttamente dal Cremlino, o dagli organi di sicurezza ad esso legati, per cui seminare il panico tra la popolazione potrebbe aiutare a radicalizzare la situazione, giustificando uno stato di guerra e una mobilitazione generale che altrimenti potrebbe suscitare reazioni molto più negative. I droni che mancano la cupola del Cremlino per pochi centimetri, o che sfiorano i tetti delle case dei potenti a Rublevo, il territorio fuori Mosca che dai tempi sovietici ospita la dirigenza politica, finendo poi per sbrecciare qualche palazzo nell’hinterland più anonimo, tutto questo fa pensare a una farsa organizzata per ottenere dei vantaggi. Del resto, l’ascesa di Putin al potere fin dalla fine degli anni ’90 è stata più volte accompagnata da tragedie vere e presunte, giustificando ogni volta un uso più esteso e deciso della forza, politica e militare, perfino religiosa.
Questi diversi scenari rievocano contrapposizioni e scambi di posizione tipici della Russia antica e moderna, Paese da sempre in bilico tra aperture e tradimenti, auto-distruzione e rinascite, alleanze ed esclusioni all’interno e all’esterno dei suoi vasti territori. Per quanto il regime putiniano possa ricordare la granitica solidità dello stalinismo, la follia ideologica del nazismo o l’impenetrabilità del maoismo, rimane pur sempre un sistema russo, capace di affondare nelle sue stesse contraddizioni, come accadde anche durante gli anni sovietici.
Una delle principali contraddizioni, spesso emergente nei periodi “torbidi”, è l’improvviso apparire sulla scena di figure piuttosto improbabili e destabilizzanti, che in russo rispondono al titolo di samozvantsy, “auto-chiamati”, coloro che millantano o pretendono un ruolo decisivo al di fuori di tutte le istituzioni, e in nome dell’intero popolo. Nessuno poteva prevedere che la guerra di Putin in Ucraina, tanto simile alle “invasioni fraterne” dei tempi sovietici in Polonia, Germania est, Ungheria o Cecoslovacchia, avrebbe dato tanto spazio a un “cuoco” oligarca con un suo esercito personale. Forse più prevedibile era l’auto-esaltazione del capo ceceno Kadyrov, comunque un altro samozvanets prodotto dalla tumultuosa guerra di Groznyj a cavallo del millennio, grazie alla quale è apparsa dalle nebbie post-sovietiche la stessa figura minacciosa e indecifrabile di Putin. Negli ultimi giorni, Prigožin sta facendo un giro di conferenze per tutta la Russia: è già intervenuto a Ekaterinburg, Novosibirsk, Nižnij Novgorod e Vladivostok presentando il progetto “Wagner. Secondo fronte”, indirizzato all’educazione patriottica della gioventù, ma anche al racconto veritiero sulla guerra, per cui “se vogliamo vincere, dobbiamo annunciare la mobilitazione generale adesso”, riesumando l’economia pianificata e la pena di morte. Non si capisce quanto le sue iniziative siano concordate o alternative alla linea del Cremlino, come anche le ondeggianti dichiarazioni di Kadyrov, che ammicca alla possibile indipendenza caucasica, mentre accetta di mandare i suoi “sterminatori”, i militi ceceni detti appunto kadyrovtsy, a sostituire i “musicisti” di Prigožin nella zona ormai abbandonata di Bakhmut/Artemovsk.
Uno dei principali personaggi storici di questa tragicommedia del potere “populista”, che pure è tanto in voga nei nostri tempi nel mondo intero, fu rappresentato dall’ascesa del primo atamano dei cosacchi, Bogdan Khmel’nitskij, a metà del Seicento, colui che fu di fatto il fondatore dell’Ucraina. Figlio di nobili polacchi, con studi a Leopoli dai gesuiti che lo fecero passare al cattolicesimo, per poi tornare tranquillamente all’ortodossia come spesso accadde anche a importanti figure ecclesiastiche russe, Bogdan venne poi coinvolto nelle guerre contro i turchi, dove ebbe modo di conoscere questi guerrieri “liberi”, i cosacchi appunto, che dalla regione dello Zaporože difendevano la patria, che per loro significava la possibilità di rimanere autonomi da qualunque potere. Insieme ai cosacchi, Khmel’nitskij partecipò perfino all’assedio di Dunkerque, schierandosi a sostegno del cardinale Mazzarino nella guerra tra francesi e spagnoli. Fece carriera nella corte del re polacco Ladislao IV, per poi guidare contro di lui la rivolta dei cosacchi, in seguito a tradimenti e intrighi che lo avevano estromesso dalla cerchia del potere. Infine si consegnò allo zar di Mosca Aleksej, per dare ai cosacchi territori liberi più ampi, detti “ucraini” in quanto “alle frontiere” dell’impero. Così l’Ucraina nacque come contraddizione tra Russia e Polonia, Oriente e Occidente, e i cosacchi rimasero forze “alternative” di entrambi gli schieramenti.
Proprio in questi giorni, nella regione ucraina di Zaporože occupata dai russi, si è formata una compagnia privata di militari, discendenti dai cosacchi della zona, chiamata Volja aba smert, “Libertà o morte”, i cui membri imitano le antiche immagini degli avi, con anelli alle orecchie e lunghe pipe accese, all’inizio con armi di fortuna, e ora riforniti di armi automatiche e granate “per la Russia”. Il mito dei cosacchi ha generato la prima forma di “dissenso”, un’altra delle dimensioni che apparentemente oggi sembra essere stata soffocata in Russia, ma che in realtà continua a rigenerarsi. Come ai tempi sovietici, c’è una differenza importante tra il dissident, colui che contesta apertamente il regime vigente, e il “diversamente pensante”, inakomysljaščij, che non esprime pubblicamente le sue idee, non solo per evitare repressioni, ma anche per “non dare soddisfazione” agli estranei. Se i dissidenti come Naval’nyj o Kara-Murza languiscono in lager, con pochi sostenitori in patria e molti in esilio all’estero, non mancano in realtà le sensazioni e opinioni diffuse tra la popolazione, che allo stesso tempo non vogliono la guerra, ma neanche darla vinta agli americani.
Lo “spirito libero” dei cosacchi, ucraini e russi, è stato affiancato, sempre a metà del Seicento, da un’altra forma di dissenso sempre presente nel mondo russo: l’orgoglio religioso di chi si sente al di sopra e al di fuori delle gerarchie ufficiali. Nacque allora lo scisma dei vecchio-credenti, che invece di fare rivolte si davano fuoco in spettacolari auto-roghi sulle piazze e sulle rive dei fiumi, pur di non sottomettersi alle riforme liturgiche “occidentalizzanti” del patriarca Nikon, che intendeva restaurare le radici greche della devozione slava. Oggi il clero e i fedeli russi sono costretti a sostenere la guerra con le preghiere e le speciali litanie, e perfino con la devozione alle icone, ma esistono in realtà molti preti, monaci e semplici parrocchiani che si recano in chiesa, o nei lunghi pellegrinaggi ai santuari del Paese, per chiedere a Dio di far tornare la pace.
A marzo 2022, trecento sacerdoti ortodossi russi firmarono una lettera contro la guerra. Diversi di loro sono stati sospesi o radiati, alcuni anche arrestati e condannati. Molti continuano silenziosamente a celebrare da “partigiani dello spirito contro la guerra”, come hanno detto anonimamente alcuni di loro alle agenzie di stampa, scegliendo litanie diverse o soltanto il silenzio, sostenuti dai fedeli spesso disorientati, ma sempre desiderosi di pace. Non ci sono in Russia e in Ucraina soltanto esaltati guerrieri, gerarchi religiosi autocefali e scismatici, schiere di diversanty, sabotatori che lanciano droni esplosivi. Ci sono uomini e donne, famiglie e bambini, credenti e non credenti a cui non importa stabilire i confini delle nazioni e dei popoli, ma vivere in pace sulla propria terra, con la propria fede.