In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». (Mt 16,13-19)
Nell’Antico oriente era d’uso che i re designassero se stessi come pastori del popolo. Era un’immagine deformata dell’uomo che si considera privo di qualunque limite, un Dio in terra. Il suo potere sul gregge era totale e assoluto. Mentre il pastore, creatore del cielo e della terra, si fa lui agnello, si è messo dalla parte degli agnelli calpestati e uccisi. Non è il potere che redime, ma l’amore! Questa è la proposta di Dio. Egli stesso è amore. Quante volte vorremmo che Dio si mostrasse più forte. Che egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore.
Tutte le ideologie del potere si giustificano in questo modo, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. La pazienza di Dio spesso ci fa soffrire. Ma, al minimo accenno di introspezione, che pazienza ha avuto Dio con noi! E di quanta pazienza abbiamo tuttora bisogno. Il Dio che è divenuto agnello dice che il mondo lo salva la croce e non i crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini. “Pasci le mie pecore”, dice Cristo a Pietro. Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire essere pronti a soffrire, richiamando mille volte al bene con perseveranza, fino a diventare nutrimento della propria presenza che ci è donato nell’Eucarestia.