La figura di Manfredi, vittima valorosa e sfortunata della politica temporale del papa, rappresenta per Dante gli ideali cavallereschi
di Leonardo Gallotta
Nel secondo canto Dante e Virgilio erano stati rimproverati da Catone perché attardatisi a sentire il dolce canto di Casella. Si allontanano allora in fretta e Dante, vedendo davanti a sé solo la sua ombra crede, provando paura, di essere stato abbandonato dalla sua guida, ma Virgilio subito lo conforta, ricordando al poeta fiorentino di esser morto a Brindisi e di essere ora sepolto a Napoli. E spiega che le anime dei trapassati hanno corpi sottili che lasciano passare i raggi di luce e, pur sottili, soffrono i tormenti come se fossero corpi in carne ed ossa. Come ciò possa avvenire – spiega Virgilio – è un mistero che la Virtù divina non vuole che si sveli. Ci si deve dunque accontentare di sapere che le cose stanno così, come vien detto ai vv. 37-39 di questo terzo canto: “State contenti, umana gente, al quia;/ chè se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria”.
I poeti arrivano intanto ai piedi del monte che presenta un pendio così erto da risultare del tutto impraticabile anche per chi ha le gambe più allenate. Dante scorge allora un gruppo di anime che si avvicinano molto lentamente e invita Virgilio, incerto sul da farsi, a chieder loro dove sia possibile iniziare la salita. Le anime si sono però accorte che Dante è vivo e si arrestano piene di stupore. Virgilio dice che esse non devono meravigliarsi per il corpo vivo di Dante, perché ciò avviene per una grazia celeste. Le anime, facendo segni con le mani, indicano ai due la strada e, mentre vanno, una di esse interpella Dante, chiedendogli se per caso l’avesse incontrato o visto mai sulla terra.
“Biondo era e bello e di gentile aspetto” (v. 107), ma presentava tuttavia un sopracciglio spaccato da un colpo di spada. Dopo che Dante ha dichiarato di non averlo mai visto in terra, il personaggio gli mostra una piaga alla sommità del petto e si presenta: “Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice”(vv.112-113). E se per caso in terra lo si ritiene dannato, possa Dante riferire a sua figlia Costanza, sposa di Pietro III di Aragona, che lui è salvo in Purgatorio. Non ci si deve stupire più di tanto se Manfredi si presenta come nipote di Costanza, madre di Federico II e non figlio di Federico, ma occorre tener presente che Dante pone Federico nell’Inferno, mentre Costanza è beata in Paradiso.
A questo punto, prima di riprendere la narrazione, occorre chiarire chi fu Manfredi. Figlio naturale di Federico II e di Bianca Lancia di Monferrato, nacque intorno al 1232. Quando morì il padre nel 1250 resse con fermezza il regno di Sicilia e dell’Italia meridionale, finchè giunse dalla Germania il fratello Corrado per assumere la corona. Morto quest’ultimo, col pretesto di tenere la reggenza per il piccolo Corradino, si fece incoronare re di Napoli e di Sicilia, cosa che avvenne a Palermo nel 1258. Tuttavia il papa Innocenzo IV che era tutore di Corradino, lo scomunicò e la lotta contro di lui continuò anche con i pontefici successivi fino a quando Urbano IV, francese di nascita, invitò Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, ad occupare il regno di Manfredi. Fu però sotto il pontificato di Clemente IV, succeduto ad Urbano, che Carlo d’Angiò giunse a Roma e fu incoronato re di Napoli il 28 febbraio del 1265. Circa un anno dopo Carlo entrò nel territorio del regno e si scontrò (fine febbraio 1266) con l’esercito di Manfredi a Benevento. Questi combattè valorosamente e cadde sul campo di battaglia. Il suo corpo fu coperto con un cumulo di pietre dai soldati francesi, ma, dissepolto per volontà del vescovo di Cosenza, i suoi resti furono sparsi oltre il fiume Liri. Riprendiamo ora la narrazione che il personaggio Manfredi fa nell’ultima parte del terzo canto.
Dopo aver ricevuto due ferite mortali egli si rivolse pentito a Dio. Confessa poi che”orribili” furono i suoi peccati, ma che Dio è così grande nella sua bontà da accogliere tra le sue braccia chiunque si rivolge a Lui. Si rivolge poi al vescovo di Cosenza che, se avesse letto l’aspetto misericordioso di Dio, non lo avrebbe fatto disseppellire e le sue ossa sarebbero ancora a capo del ponte presso Benevento, sotto la custodia della “grave mora”, cioè del cumulo d pietre che fungeva da sepolcro. Nonostante la maledizione (scomunica) dei pastori della Chiesa, finchè c’è un filo di speranza, non si perde del tutto l’eterno amore di Dio. Tuttavia, dice ancora Manfredi rivolto a Dante, chi muore scomunicato dalla Chiesa, anche se pentito, è necessario che stia fuori dal Purgatorio vero e proprio trenta volte il tempo della sua “presunzion”, cioè nella sua ostinazione a non sottomettersi all’autorità della Chiesa. Infine Manfredi riformula a Dante la richiesta di rivelare alla sua buona Costanza come stanno le cose per la sua anima, concludendo sulla necessità dei suffragi per le anime del Purgatorio, “chè qui, per quei di là, molto si avanza” (v. 145).
Dal racconto-confessione di Manfredi si ricava certamente un atteggiamento di simpatia da parte di Dante nei suoi confronti, anche se avrebbe potuto essere, l’atteggiamento, molto diverso, visto che Manfredi, capo del partito ghibellino, aveva reso possibile, coi suoi aiuti, la sconfitta fiorentina nella battaglia di Montaperti. Ma la figura di Manfredi che viene fuori da questo canto è soprattutto quella della vittima valorosa e sfortunata della politica temporale del papa e del suo strumento Carlo d’Angiò. Certamente la regalità di Manfredi è anche espressione suprema degli ideali cavallereschi e su questo aspetto concludo con le parole di quel grande dantista che è stato Umberto Bosco (1900-1987): “Dante conferisce al suo personaggio tutti gli attributi tradizionali del cavaliere: anzitutto, secondo la componente ‘estetica’ della cavalleria, la bellezza, sulla quale del resto concordano tutti i cronisti sia guelfi sia ghibellini. Al dantesco ‘biondo era e bello e di gentile aspetto’ corrisponde quasi esattamente il v. 2278 della Chanson de Roland: ‘Bels fut e forz e de grant vasselage’ e, comunque si debba spiegare il fatto, ‘rufus et pulcher adspectu decoraque facie’ è detto David giovane nella Bibbia (I Sam, XVI, 12)…….Tutt’uno con questa giovane bellezza virile, l’impronta della nobiltà di stirpe e dei costumi (‘gentile aspetto’) “. E sul suo valore dice ancora il Bosco: “Quando le sorti della battaglia si erano delineate, il re avrebbe potuto, portandosi su altre posizioni, evitare la morte e forse anche salvare il regno: preferì, deposte le insegne regali, morire combattendo faccia a faccia col nemico. E al valore avevano reso omaggio – altra notazione tipicamente cavalleresca – gli stessi avversari, gettando ciascuno un sasso sul suo cadavere, sino a formare una ‘grave mora’: e forse ciò era stato voluto dallo stesso Carlo, che subito dopo la battaglia, scrisse a Clemente IV di aver provveduto a far seppellire il nemico ‘Cum quadam honoreficentia sepulturae, non tamen ecclesiasticae’. Un cavaliere perfetto, dunque, il Manfredi dantesco”.
Sabato, primo luglio 2023