Intervista al pittore Andrea Pescio
di Luca Finatti
Nomen omen, il nome è un presagio dicevano gli antichi: incontrare Andrea Pescio il primo aprile 2023, dopo aver acquistato tre anni fa le sue bellissime carpe, dipinte a penna sfera BIC rossa e verde, appese di fronte alla porta dell’entrata, cosicché chi entra si trovi dinanzi a una placida danza ittica, significa ascoltare il racconto di un destino che si svela lentamente, ma inesorabile, segnato da una vocazione artistica dalla voce imperiosa.
Comincio dalle generalità.
Andrea nasce il 20 febbraio 1972, sotto il segno dei Pesci dunque, a Novara, dove tuttora risiede, orgoglioso provinciale partito alla conquista del mondo della moda.
Ha lavorato infatti presso lo studio Lasabui, sempre a Novara, specializzandosi nella decorazione tessile per alcune delle più famose case d’Alta Moda che sfilano a Milano, Parigi, New York. Nel 2009 la sua prima mostra personale, poi non si è più fermato, esponendo da Venezia a Pechino.
Io l’ho conosciuto nel 2018 alla Galleria Pirra di Torino.
Che cosa hai imparato grazie alla pittura su stoffa?
La disciplina e la tecnica. Lavoravo su abiti già confezionati, non potevo sbagliare.
La concentrazione durante l’esecuzione e la precisione del tratto pittorico sono decisive.
Inoltre la tela è stabile, come la carta, invece il tessuto è instabile, una sfida continua nel modellare il segno a partire dalle necessità del tessuto.
Ho lavorato dieci anni per lo studio Lasabui di Novara dove ho imparato tecniche artigianali molto raffinate e una ferrea disciplina del lavoro: dipingo tutti i giorni un certo numero di ore, sistematicamente, quasi come un operaio che ripete sempre gli stessi gesti.
Le mie tele in genere sono grandi, richiedono tempo e metodo.
Dopo il Liceo artistico ti iscrivi all’Accademia di Brera, però una volta iniziato il lavoro in azienda ti rendi conto che così impari molto di più e lasci la scuola.
L’ambiente dell’Accademia mi piaceva, ma a un certo punto ho dovuto scegliere, l’impegno lavorativo diventava sempre più intenso e totalizzante.
Ancora adesso non disdegno la cosiddetta arte applicata: la creatività in questo caso è stimolata da un territorio definito e concordato con il committente. La mia libertà d’azione sta dentro dei limiti, ma è proprio così che funziona la vita, la libertà sta sempre dentro confini ben precisi. Vitruvio (I sec. a.C.) cercava la misura della propria persona per poi riportarla sulla tela. La misura del mondo passa attraverso la consapevolezza della propria misura, intesa come i propri limiti, credo .
A proposito di definizione, mi pare evidente la tua predilezione per il disegno e per temi figurativi fantastici, fiabeschi, ma sempre con soggetti chiaramente individuati, pieni di luce e di colore.
Il disegno è per me fondamentale. La tradizione, lo studio del passato, richiedono attenzione verso il disegno, anche per la modellazione e la scultura.
Nel Novecento la pittura priva di disegno è stata saccheggiata da operazioni commerciali, anche di alto livello, legate alla decorazione dei tessuti e al prêt-à-porter.
Emozione e tecnica prone a logiche di mercato. Questo è un ambito che conosco bene.
Infatti le avanguardie novecentesche le ho comprese in profondità proprio quando ho dovuto trasferire alcune opere e procedimenti d’avanguardia su un supporto tessile.
Ho spostato spazialmente l’opera su un supporto diverso e l’ho studiato da dentro.
Colpisce nelle avanguardie la semplicità esecutiva a livello sensoriale, colpisce però solo quello, immagini che rinviano a reazioni epidermiche immediate, intense, senza però alcuna traccia di pensiero, a volte nemmeno emozione, solo una specie di scarica elettrica.
Come ti sei scoperto pittore? (Scusa di questa domanda fatta di “trite parole”, direbbe Saba, ma sono insegnante di adolescenti informi e m’interessa sempre capire come nascono le vocazioni e si sviluppano i talenti).
Grazie ai miei genitori che mi portavano spesso in visita a musei e mostre varie.
Mi fece una grande impressione casa Leopardi, visitata più volte perché andavamo in vacanza a Recanati. Trapelava, da quegli ambienti così densi di un’impegnativa eredità culturale, tutta la sofferenza e la fatica di chi lì è vissuto e ha dovuto dimostrare di esserne all’altezza.
Anche per questo la casa mi attraeva. Lì si capisce cosa vuol dire prendersi del tempo per la bellezza.
Un’altra ispirazione durante gli anni del Liceo artistico fu la visione dei bronzi di Riace: una sorta di shock spirituale. Ero andato con la famiglia in vacanza in Calabria apposta per vederli.
E il tuo primo quadro?
Sempre al Liceo, ispirato ai preromantici come Füssli (1741-1825). Ho cominciato con la tradizionale pittura a olio, la BIC penna a sfera è arrivata dopo, quando scopro la pittura di Alighiero Boetti (1940-1994).
Invece fra le passioni di questi ultimi anni ci sono la Cina e l’amicizia con il critico e storico dell’arte Raul Capra (1927-2023), giusto?
La Cina l’ho scoperta grazie a L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci.
All’inizio è stata un’emozione puramente estetica: il cromatismo delle scenografie e dei costumi mi ha talmente affascinato da spingermi ad approfondire la ricerca pittorica sul periodo della Cina imperiale.
Nel 2017 ebbi l’occasione di poter lavorare a Pechino, conobbi un ambiente artistico aperto e interessante e nel 2019 fui invitato di nuovo perché una mia opera, che si trova ancora a Pechino, era stata selezionata per la Biennale.
Raul Capra l’ho incontrato la prima volta nel 2015, in occasione del laboratorio d’arte che animai presso l’Istituto psichiatrico di Novara. La mostra conclusiva fu curata da Capra, appunto, con il quale iniziò una frequentazione intensa, fatta di lunghe e piacevolissime chiacchierate. Mi ha aiutato ad allestire una delle mie mostre più importanti, alla Giudecca, e ha scritto un testo nel catalogo dove ha ben delineato il mio percorso stilistico.
Mi è stato vicino fino alla sua morte, all’inizio di quest’anno, come un padre, ma anche come un classico professore del Novecento, tutto disciplina e cultura1.
Addentrandoci ora più direttamente nelle tue opere, m’incuriosisce sempre l’evidente simbolismo animale, a partire dalle carpe che disegni volentieri e intitoli Cara prudenza, riprendendo il significato virtuoso tipico della tradizione cinese. Altre volte invece mi pare che tu voglia squadernare dinanzi ai nostri occhi una sorta di bestiario medievale.
Mi piace in particolare il mondo anfibio, il doppio e la simmetria, l’immagine allo specchio.
Il salmone invece richiama la tenacia e la perseveranza di chi compie un’impresa impegnativa. I miei perlopiù sono bestiari immaginifici, capricci della fantasia più che allegorie.
Del Medioevo amo soprattutto la miniatura: la Parola che diventa arte, alludendo alla sua natura didascalica, immersa nel Mistero. Narrazione nella narrazione, questa è la miniatura, svincolata da tutto il resto, solo rappresentazione figurata che parte dalla Parola.
Quanta fede c’è nella tua arte? E perché ritorna spesso la Vergine Maria, semi-nascosta o circondata dal tuo mondo fantastico (Virgin surrounded s’intitola infatti l’acquerello che amo di più)?
La fede è come un rinforzo del pensiero che sto tentando di realizzare nell’opera. Non è mai un fine limpido e chiaro, il fine è sempre la bellezza.
La mia formazione umana e culturale ha matrice salesiana, per me l’immagine della Vergine è soprattutto Maria Ausiliatrice, la struttura anatomica della tradizione iconografica mariana mi affascina.
Inoltre solo con Lei ho una certa confidenza per cui sento di potermi permettere un’interpretazione iconografica diversa, senza rischiare di essere punito. La sento sempre come madre accogliente e dolce.
La bellezza dunque può essere una via a Dio?
L’arte può essere una forma di preghiera. L’opera mi restituisce l’intensità del momento che ho vissuto.
Il soggetto finora più esplicitamente religioso l’hai realizzato per la mostra collettiva di Forte Marghera, nel 2019, a tema Pensieri Parole Opere e Omissioni. Il peccato originale al tempo del web. Qualcuno ha scritto che la suora è molto arcigna e tu hai voluto rappresentare i turbamenti di una triste educazione cattolica …
La suora certo è un po’ severa, ma il mio quadro rappresenta una gita, un momento di aggregazione e svago. La suora gestisce un sacchetto con delle fiches da tombola che usava per le interrogazioni e per i giochi di gruppo (forse erano lenticchie).
Il mio in realtà è il ricordo affettuoso di un mondo salesiano buono, in cui sono cresciuto senza traumi, una memoria piena di gratitudine.
La giornata con Andrea volge al termine, ma prima di ripartire da Novara vengo introdotto nello studio dell’artista: due lunghe stanze comunicanti, strette e alte, con ampie pareti dove appendere grandi quadri: festoni cinesi, in realtà nascosti in uno stanzino laterale più piccolo; cavalieri volanti sul dorso di chimere metà uccello dal becco affilato, zampe cavalline e coda draghesca; dappertutto vesti finemente decorate, pizzi, drappeggi infiniti, tappezzerie e arabeschi a decorare bimbi, donne e animali quotidiani.
Ma soprattutto l’ultima avventura di Andrea, con dipinti per ora abbozzati e altri quasi finiti: le architetture fantastiche.
Oltre ad aver illustrato una prestigiosa edizione dei romanzi di Jules Verne (1828-1905)2, il nostro pittore ora si dedica a inventare città impossibili, rappresentate con la precisione maniacale di Canaletto e l’immaginazione cerebrale di Italo Calvino (1923-1985) che, in un libro amato da Andrea Pescio, Le città invisibili, ha fatto incontrare l’impetuosa razionalità occidentale di Marco Polo (1254-1324), sempre al servizio di un’insaziabile sete di conoscenza, con lo sguardo contemplativo di Kublai Khan (1215-1294), assorto e stupito mentre ascolta i racconti dell’esploratore. E direi che la conclusione possiamo lasciarla a Calvino, nell’anno in cui si commemora il centenario della sua nascita.
– Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: – Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco: – L’ altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà3.
Sabato, 15 luglio 2023
1 “Pescio dipinge grandi tele con la penna a sfera e acquerelli a queste propedeutici. Nelle tele una laboriosa preparazione del supporto precede la stesura del fitto tracciato lineare, che sapientemente, con decisa gestualità, solca la trama tissurale, animando di un sommesso vibrare la fermezza del tratto segnico, integrato dall’impiego di appositi rulli decorativi […] Rispetto all’ottocentesco, assorbente e nullificante, quello di Pescio, anche a prescindere dai soggetti, è dunque un orientalismo più vissuto e vitale, di natura simbiotica, da ricordare piuttosto i primordi dell’arte occidentale, quando il nascente gotico arricchiva di imagerie asiatica l’eredità greco-romana, come ha ben mostrato Jurgis Baltrusaitis nel suo Le Moyen Age fantastique. Siffattamente nei grandi dipinti di Pescio il ricordo rinascimentale dei profili a mezzo busto di donne europee, impreziositi dal decoro dell’abito, lascia poi luogo ai doppi volti di giovani orientali di scorcio, in simmetria verticale; mentre all’ippogrifo ariostesco subentrano, parimenti volanti, e cavalcate da una fanciulla, le tartarughe dell’emblema imperiale cinese […] Nelle opere di Andrea Pescio non sai se si debba vedere uno degli ultimi capitoli della storia della pittura occidentale ovvero il preambolo di un’altra storia, che vedrà forse, di nuovo sulla traccia di Marco Polo, l’integrazione di Oriente e Occidente”.
Raul Capra in Andrea Pescio, VENICE WATER WAY. Watercolors on paper, a cura di Raul Capra, Venezia, 2020
2 Jules Verne, Gli strani viaggi d Jules Verne, Mondadori, Milano, 2020.
3 Italo Calvino, Le città invisibili, Arnoldo Mondadori, Milano, I ed. Oscar opere di Italo calvino, 1993, pag. 27.