Di Stefano Caprio da AsiaNews del 21/10/2023
Mentre il presidente Vladimir Putin cercava di consolarsi con il “fratello maggiore” Xi Jinping a Pechino, dopo aver ricevuto qualche affettuosa carezza dai capi ex-sovietici a Biškek, il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev) ha rimarcato in questi giorni il suo stato di isolamento sia all’interno della stessa Chiesa russa, sia nell’intero mondo ortodosso. Dopo che la Verkhovnaja Rada, il parlamento di Kiev, ha votato in questi giorni per il divieto in Ucraina alle attività della giurisdizione russa dell’ortodossia, la Chiesa Upz, il patriarca ha lanciato un accorato appello “a tutti i Capi delle Chiese ortodosse locali” e a una serie di altri leader religiosi di tutto il mondo, trasmettendolo anche alle istituzioni internazionali, per “intervenire a sostegno dei fedeli ortodossi ucraini”, senza ricevere alcuna dichiarazione o promessa di aiuto.Del resto, anche la guida spirituale della stessa Upz, il quasi ottantenne metropolita Onufryj (Berezovskij), si mantiene in una posizione di doloroso distacco e silenzio, avendo da tempo aspramente criticato Kirill per il suo sostegno all’invasione in Ucraina, e rimettendosi alle decisioni delle autorità civili in spirito di obbedienza e sacrificio. La quasi totalità dei sacerdoti ucraini di questa Chiesa ha smesso dallo scorso anno di commemorare il patriarca moscovita durante le liturgie, anche se i legami storici con la Russia rimangono indelebili nell’animo di molti fedeli e gerarchi, creando un’ambiguità ormai insopportabile dopo quasi due anni di guerra.Onufryj era diventato monaco nel 1970 nella Lavra della SS. Trinità, proprio quella in cui Kirill ora celebra la sua versione dell’Ortodossia militante esibendo l’antica icona di Andrej Rublev, strappata dalla teca del museo in cui era esposta. I due si conoscono dai tempi di Brežnev, anche se Kirill, di un anno più giovane, era allora nella sua nativa Leningrado, diventando vescovo prima dei trent’anni per fare da testimonial alla “lotta per la pace” del regime sovietico in tutti i consessi ecclesiastici e diplomatici in giro per il mondo, ottenendo riconoscimenti e lodi anche dai servizi di sicurezza del Kgb. Onufryj rispettava invece il silenzio monastico in cui è tuttora immerso, finendo per cercare negli ultimi anni un impossibile equilibrio tra i vecchi amici russi e i nuovi leader dell’Ucraina rivolta verso Occidente.Il patriarca si scaglia oggi in forma sempre più radicale contro i “nazisti ucraini” che hanno costretto la Russia a “difendere i russi del Donbass dal genocidio”, e più in generale a resistere all’egemonia dell’Occidente in nome della vera fede. Nei giorni scorsi, in occasione della premiazione del fisico russo Radij Ilkaev, Kirill è arrivato a dire che “la Russia è rimasta un Paese libero e indipendente grazie alle armi nucleari, create con la protezione di San Serafino di Sarov”, a cui ha contribuito “questo grande scienziato che dirige un centro nucleare decisivo per l’esistenza del nostro Paese, vicino ai luoghi del santo”. Il centro a cui allude il patriarca si trova ad Arzamas nella regione di Nižnij Novgorod, non lontano dal monastero di Diveevo, meta dei grandi pellegrinaggi alle spoglie del santo canonizzato dallo zar Nicola II poco prima della guerra con il Giappone del 1904-1905, per trovare ispirazione patriottica.Al momento del crollo dell’Urss nel 1991, Onufryj era vescovo in Ucraina, sua terra nativa, nell’eparchia di Ivano-Frankivsk, e fu tra i firmatari della richiesta di autocefalia ecclesiastica, che accompagnava la dichiarazione di indipendenza del Paese da Mosca. Era l’inizio della storia dell’Ucraina come Stato libero, e la Chiesa era disposta ad accompagnare le istituzioni civili; il metropolita di Kiev era Filaret (Denisenko), oggi novantaquattrenne, che era stato tra i vescovi consacranti di Kirill, per poi contrapporsi a lui con un’inimicizia irriducibile, personale e ideologica, che si può certamente catalogare tra le cause storiche e simboliche del conflitto tra russi e ucraini. Kirill aveva appoggiato un altro candidato al patriarcato nel 1990, Aleksij II (Ridiger), a cui egli stesso è succeduto nel 2009, mentre Filaret contava sulle garanzie degli amici del Kgb che fino allora avevano controllato la vita della Chiesa russa, grazie anche alla collaborazione più o meno forzata degli stessi gerarchi, a partire proprio da Filaret e Kirill.Quando Denisenko si autoproclamò patriarca di Kiev in conflitto con Mosca, il mite vescovo Onufryj fu tra quelli che rimasero fedeli al legame con la Chiesa russa, che concesse agli ucraini “leali” una certa autonomia senza rescinderne i legami, motivo dell’attuale decisione politica di chiudere le loro quasi 12mila chiese in Ucraina, costringendole a scomparire o unirsi alla nuova Chiesa autocefala del metropolita Epifanyj (Dumenko), ex-segretario di Filaret, rimasto da solo come “patriarca emerito” con i suoi fedelissimi. La mancata riconciliazione tra Filaret e Kirill ha causato una divisione così profonda tra russi e ucraini, e anche tra le diverse fazioni interne della Chiesa ucraina, che appare ormai impossibile da ricomporre, e al di là delle decisioni legislative e delle soluzioni belliche, continuerà a tormentare gli ortodossi ucraini ancora per molti anni.Eppure c’era chi si era adoperato per trovare un compromesso fino all’ultimo, quando nel 2018 il Sinodo patriarcale di Mosca espresse poi la sua condanna dell’autocefalia ucraina sancita dal patriarca Bartolomeo di Costantinopoli. Tra questi mediatori spiccava il metropolita Tikhon (Ševkunov), allora ancora vescovo vicario di Mosca e superiore del monastero Sretenskij all’interno dei palazzi storici del Kgb di piazza Lubjanka. Tikhon, oggi sessantacinquenne, è uno dei personaggi più in vista della Chiesa ortodossa russa, noto come “padre spirituale” dello stesso Putin, scrittore e regista, e fece il possibile per evitare la frattura definitiva, convincendo perfino l’anziano Filaret a scrivere una lettera di conciliazione al Sinodo, rimandata sprezzantemente al mittente da Kirill.Il patriarca moscovita decise quindi di cacciare Tikhon il più lontano possibile, e non potendo esiliarlo in qualche sperduta eparchia siberiana, visto il grande influsso di cui godeva, lo rimandò nella metropolia di Pskov ai confini con la Lituania, dove da giovane Tikhon era diventato monaco, convertendosi alla variante della “ortodossia sovietico-cristiana”. Dal 2018 Ševkunov ha continuato a esercitare tale influenza anche da lontano, ricoprendo anche la carica di capo del dipartimento patriarcale per la cultura, mantenendo però un profilo meno eclatante; se prima faceva interviste e pubblicava libri e articoli con ritmo incessante, da Pskov si è limitato a qualche apparizione e dichiarazione, pur sempre molto seguite dal grande pubblico.Ora il metropolita Tikhon è stato inviato da Kirill in Crimea, sulla linea più calda del fronte, e molti si chiedono fino a che punto si tratti dell’ennesima punizione, o piuttosto di una possibile esaltazione della sua figura, a livello ecclesiastico e politico. Mentre Kirill ha avuto bisogno di dimostrare la sua adesione alla guerra putiniana, dopo decenni di slalom ideologici e diplomatici, Tikhon è rimasto tranquillo, intervenendo il meno possibile, in quanto nessuno poteva dubitare della sua lealtà. Come autentico ispiratore del suo “figlio spirituale”, Tikhon esprimeva pubblicamente fin dagli anni Novanta le sue convinzioni sul “destino imperiale della Russia”, giustificandolo con riletture storiche, teologiche e culturali di ampio respiro, pur senza invocare guerre e invasioni come i tanti altri “ideologi di Putin”, Kirill compreso.Il 18 marzo di quest’anno, nel “sacro” anniversario dell’annessione della Crimea, Tikhon era apparso a sorpresa accanto a Putin in una visita della penisola, lodato dal locale governatore Sergej Aksenov come “uno dei più grandi intellettuali della Russia”, suscitando evidentemente un forte rancore nell’animo del patriarca. Prendendo nei giorni scorsi congedo dai suoi fedeli di Pskov, invece di auto-celebrarsi direttamente come “nuovo apostolo” della Crimea, il metropolita ha furbescamente definito il suo trasferimento come “esilio sulle spiagge della Kolyma”, paragonando la regione balneare di Sebastopoli ai lager staliniani nel gelo del grande nord, ricordando che in Crimea erano stati mandati al confino perfino dei padri della Chiesa come Clemente Romano e Giovanni Crisostomo, e assicurando che “il mio cuore rimane nel monastero delle Grotte di Pskov”.La mossa di Kirill, come spesso accaduto nel suo governo patriarcale, più che allontanare gli avversari ha reso ancora più isolata e detestabile la sua stessa figura, e non contento di questo, egli ha preso un’altra decisione assai controversa, liquidando un altro metropolita, Leonid (Gorbačev), che lui stesso aveva esaltato negli ultimi anni affidandogli un cumulo di incarichi, e soprattutto quello di esarca della Chiesa russa per l’Africa. L’esarcato era stato creato a dicembre 2021, alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, in conseguenza di un’altra rottura a livello ecclesiastico, quella con il patriarcato greco di Alessandria che ha storicamente la giurisdizione sugli africani, mentre ora è considerato scismatico da Mosca per essersi allineato a Costantinopoli nel riconoscimento dell’autocefalia ucraina.Leonid negli ultimi tempi si lamentava di non riuscire più a gestire le chiese russo-africane come nei mesi precedenti, e in tutta risposta Kirill lo ha messo a riposo, senza spiegare i motivi della decisione. Tutti però in Russia conoscono gli stretti rapporti che legavano il metropolita, ex-militare dell’Armata Rossa, alla compagnia Wagner di Evgenij Prigožin, che spadroneggiava in tutto il continente nero prima della sua scomparsa dello scorso 23 agosto. La sua rimozione è apparsa quindi un allineamento di Kirill al superamento putiniano degli estremismi più guerrafondai, dimostrando allo stesso tempo la sua sudditanza allo zar e la sua inconsistenza come guida spirituale, capace solo di evocare guerre “metafisico-nucleari”, ma non di governare veramente la sua Chiesa, riducendola a strumento dei giochi di potere e delle ideologie del momento.