L’apostrofe all’Italia e a Firenze
di Leonardo Gallotta
Il canto VI si apre con un quadretto di vita vissuta: sulla piazza di un mercato c’è stata una sfida alla zara, un gioco d’azzardo coi dadi e la gente che vi ha assistito, lasciato da solo il perdente, si affolla attorno al vincitore, sperando di ottenere una piccola mancia. Così è per Dante. Le anime dei morti di morte violenta fanno ressa attorno a lui chiedendo di ottenere suffragi per accorciare il cammino purgatoriale. Questo fatto apre la strada ad una precisazione dottrinale. Nell’Eneide all’insepolto Palinuro il quale pregava di essere portato al di là dell’Acheronte, la Sibilla risponde che è vano sperare di piegare con preghiere la decisione degli dei. Virgilio allora spiega che le preghiere inascoltate erano fatte da pagani, mentre il fuoco dell’amore e della preghiera cristiana può abbreviare il tempo del debito contratto dai defunti. Insomma l’amore cristiano subentra all’inesorabilità del fato pagano.
Dante, finalmente libero dalle insistenze degli spiriti, di alcuni dei quali aveva pure fatto i nomi, procede nel cammino assieme a Virgilio che scorge un’anima “sola soletta” e ad essa si rivolge per chiedere la strada. Tale anima non risponde subito e a sua volta chiede invece chi sia colui che vuole avere indicazioni. Virgilio inizia a rispondere citando Mantova, più precisamente Mantüa. Questo termine richiama immediatamente il noto epitaffio attribuito a Virgilio stesso: “Mantüa me genuit, Calabri rapuēre, tenet nunc/ Parthenope: cecini pascua, rura, duces”. Libera traduzione: “Nacqui a Mantova, morii in meridione (a Brindisi) , ora il mio corpo lo custodisce Napoli: ho cantato i pascoli (con le Bucoliche), le campagne (con le Georgiche), gli uomini d’arme (con l’Eneide)”. Appena ha sentito citare Mantova, l’anima rivela il suo nome, Sordello, e di essere anch’essa mantovana. I due concittadini si abbracciano allora festosamente.
Apriamo ora una parentesi sul personaggio incontrato. Innanzitutto si deve dire che Sordello è stato il più celebre dei trovatori italiani, nato a Goito all’inizio del XIII secolo. Di famiglia nobile, ma povera, frequentò varie corti, ma, almeno nei primi tempi, ebbe una vita da avventuriero spregiudicato. A un certo punto si recò in Provenza presso la corte di Raimondo Berlinghieri e poi passò al servizio di Carlo d’Angiò da cui ebbe in dono, nel 1269, alcuni feudi negli Abruzzi. Morì non molto tempo dopo tale data. Durante la sua dimora in Provenza perfezionò la conoscenza della lingua e della tecnica trobadorica e scrisse la sua più famosa composizione, il Compianto in morte di ser Blacatz (1236) in cui si esalta questa nobile figura messa a confronto con i più famosi personaggi politici del tempo di cui biasima la codardia. Non sappiamo che cosa Dante conoscesse della vita di Sordello e comunque nel De vulgari eloquentia (VE, I, xv 2) lo cita come uno dei più importanti poeti italiani in lingua provenzale.
Torniamo ora all’abbraccio tra i due mantovani. Ebbene il loro gesto di amor patrio induce Dante a prorompere nell’apostrofe all’Italia, la cui terzina iniziale è divenuta assai famosa: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiero in gran tempesta,/ non donna (domina) di provincie, ma bordello!”. Infatti, dice Dante, le città italiane sono dilaniate dalle lotte intestine delle fazioni e non ce n’è alcuna che goda della pace. Da una parte c’è la Chiesa che pone ostacoli alla legittima signoria imperiale e dall’altra gli imperatori tedeschi, soprattutto Alberto I d’Austria e pure suo padre Rodolfo, che si sono interessati solo dei territori germanici e hanno trascurato l’Italia, definita da Dante “il giardin de lo imperio”. Così facendo si sono moltiplicate le fazioni cittadine e ne cita pure alcune: “Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi”. Quattro sono le terzine in cui Dante invita Alberto d’Austria a venire in Italia. Nella terza lo invita addirittura a venire a Roma, anche perché l’Imperatore del Sacro Romano Impero era appunto “romano” e non tedesco. Si pensi che lo stesso Alberto era stato coronato come Rex Romanorum. Ecco la citata terzina: “Vieni a veder la tua Roma che piagne/ vedova e sola, e dì e notte chiama: /Cesare mio, perché non m’accompagne?”. Infine il Poeta si chiede se gli occhi di Nostro Signore son forse rivolti altrove oppure se tutto ciò è preparazione, nell’abisso insondabile della sua mente, di un qualche bene, lontano tuttavia dalla nostra capacità di comprendere.
Dante, nel doloroso panorama delle città italiane, non può certo dimenticare la sua Firenze, alla quale pure rivolge un’apostrofe dal tono ironico–sarcastico. Dice infatti, rivolto alla sua città, che può esser ben contenta per la digressione sui mali d’Italia, perché essa non ne è toccata. Molti hanno in cuore il senso della giustizia, ma tardi la manifestano e i fiorentini di giustizia parlano sempre, ma senza applicarla. Molti di essi si dichiarano pronti a sostenere il peso degli incarichi pubblici, ma in realtà sono ambiziosi e fanno tutto con leggerezza. Dante fa addirittura, ma in tono sarcastico, un paragone con Atene e Sparta che fecero così buone e civili leggi che son piccola cosa rispetto a Firenze. In realtà i provvedimenti comunali presi ad ottobre non arrivano neppure a metà novembre. Firenze è come un’inferma che sul letto non trova posa e col cambiar posizione cerca di aver sollievo al suo dolore. Così finisce l’invettiva e così si conclude il VI canto.
Sabato, 11 novembre 2023