Di Daniele Capezzone da Libero del 17/11/2023
Nel gennaio del 1977, poco meno di quattro anni prima che diventasse presidente degli Stati Uniti, fu chiesto a Ronald Reagan cosa pensasse dell’Unione Sovietica e quale potesse essere la migliore strategia per chiudere con successo la Guerra Fredda. E quel gigante risposte con quattro parole lapidarie: «We win, they lose», «noi vinciamo, loro perdono». Non fatevi ingannare dalla studiata essenzialità di quella frase (lo stesso Reagan aveva premesso di voler dire cose «semplici» e che «qualcuno avrebbe definito semplicistiche»): la realtà è che in quelle parole c’era un’analisi politica (la differenza abissale tra democrazie e dittature) e un impegno assoluto (prevalere, far vincere la libertà, non accettare compromessi mediocri). Stadi fatto che, una volta arrivato alla Casa Bianca (1980-1988), Reagan operò minuziosamente per dare corpo a quella strategia: volle un poderoso riarmo che schiantò le velleità sovietiche e fece letteralmente implodere l’Urss; si impegnò in una costante difesa dei princìpi e dei dissidenti; e aggiunse a tutto questo – per vincere anche la battaglia dei cuori – pagine epiche, incluso il suo leggendario discorso del 12 giugno 1987 a Berlino Ovest («Mr Gorbaciov, tear down this wall!»). Come si sa, il muro venne effettivamente giù un paio d’anni dopo. VOCE DAL SEN FUGGITA… Da allora sono trascorsi alcuni decenni, ma sembrano passati secoli, al punto che nel malridotto Occidente di oggi desta scandalo perfino una battuta (per una volta, efficace e veritiera) sfuggita a un presidente Usa purtroppo diversissimo da Reagan. Da queste parti – come i lettori sanno – non siamo ammiratori di Joe Biden, né in politica interna né in politica estera. Su questo secondo fronte, dalle aperture all’Iran alla precipitosa fuga dall’Afghanistan, Biden ha purtroppo trasmesso alle potenze autoritarie un senso di debolezza americana. E si sa, quando il guardiano appare meno robusto o più distratto, gli altri (da Pechino a Mosca a Teheran) ne approfittano. La storia degli ultimi due anni parla fin troppo chiaro. Eppure perfino il fragile Biden che abbiamo imparato a conoscere, qualche ora fa ha avuto un sussulto, sfuggendo per un istante al suo staff che – da annilo corregge, lo guida, e non esita perfino a “precisare” (stavo per scrivere: smentire) alcune sortite dell’anziano presidente. Sta di fatto che, dopo l’incontro con il presidente cinese Xi Jinping, parlando in conferenza stampa, Biden lo ha bollato come «dittatore», aggiungendo: «È un dittatore nel senso che governa un Paese comunista, basato su una forma di governo totalmente diversa dalla nostra». Formalmente, è una smagliatura diplomatica: se incontri un leader, non ti metti ad apostrofarlo qualche quarto d’ora dopo la fine del summit. Ma sostanzialmente, per una volta, si tratta di una boccata d’aria fresca, che almeno trasmette la sensazione della consapevolezza di una diversità assoluta, mandando al macero i comunicati scritti nella lingua di legno dell’ipocrisia. Naturalmente, in un Occidente che ormai odia se stesso e si scusa perfino della propria esistenza, la parola usata da Biden ha suscitato un vespaio. Ma verrebbe da dire – meno male: meno male che il leader del mondo libero la pensi e si esprima così; meno male che almeno a Washington non abbia ancora dilagato la deriva filo-autoritaria che qui unisce ampi pezzi di sinistra e dei Cinquestelle. Non dimentichiamo mai che- sia in Italia che in Ue – lo stesso Pd si è rifiutato di votare l’equiparazione tra nazifascismo e comunismo. BATTUTA LIBERATORIA Ecco, pur nella sua estemporaneità, la battuta di Biden è quasi liberatoria, in mezzo a mille motivi di sconforto troppo spesso sottovalutati: la mancanza di consapevolezza da parte di numerosi leader occidentali (per non dire di media, intellettuali ed élite) su quanto il nostro sistema di valori sia sotto attacco; la pervasività e la profondità della minaccia che viene dalle potenze autoritarie, che sono anche state capaci di penetrare efficacemente nel nostro dibattito pubblico, contando su quinte colonne e cavalli di Troia; un’Europa oscillante tra l’irrilevanza e il malcelato desiderio di alcuni attori di ritagliarsi un ruolo ambiguamente “terzo” tra Nato e potenze asiatiche. Contro tutto questo, servirebbe un po’ di reaganismo, o almeno il ricordo di ciò che consentì la vittoria nella Guerra Fredda: avere chiara la bussola dei princìpi di libertà e democrazia, e puntare sull’arma decisiva della deterrenza. Quest’ultimo è un aspetto letteralmente determinante: occorre mostrare plasticamente di avere un apparato militare più forte rispetto a quello dei “cattivi del mondo”. Diceva la signora Thatcher che «il nostro modo di vivere, la nostra visione e tutto ciò che speriamo di raggiungere è garantito non dalla giustezza della nostra causa ma dalla forza della nostra difesa»: e ovviamente aveva ragione. E invece il paradosso è che da qualche anno, in un clamoroso rovesciamento delle parti, sono le potenze autoritarie a mostrarci in diversi teatri la loro forza sul campo. Testano i nostri riflessi, e c’è da temere che li trovino spesso lenti, inadeguati, lontani da ciò che sarebbe necessario. Resta comunque qualche motivo di amarezza. Dopo il vertice con Biden, Xi Jinping ha organizzato una cena esclusiva con una serie di protagonisti dell’economia Usa: tra le sigle rappresentate, c’erano BlackRock, Blackstone, Visa, Pfizer, Qualcomm, Broadcom, e ancora Microsoft, Citigroup, Exxon Mobil, Tesla e Space X. Sono accorsi tutti, ricordando l’analoga scena del 2017 a Davos, quando al tiranno cinese fu riservata un’accoglienza letteralmente trionfale, con l’intero establishment progressista mondiale in prima fila a spellarsi le mani, a farsi vedere, a farsi intervistare nei giorni successivi, per lasciare a verbale il proprio applauso a Xi come alternativa allo sgradito Donald Trump. Ecco, tutti costoro faranno bene a ricordare che le loro imprese sono nate, vivono e prosperano proprio grazie all’Occidente e all’ordine liberale: concetti forse in crisi, certamente pieni di difetti, bisognosi di cura, di un continuo rammendo. Ma si tratta di princìpi che non possono essere dimenticati né- meno che mai – rinnegati o svenduti.