Di Paolo Mieli da Il Corriere del 20/11/2023
Angosciati come siamo dalla guerra d’Israele, abbiamo finito per distrarci da quella d’Ucraina. Colpevolmente. Volodymyr Zelensky attraversa uno dei momenti più difficili della sua vita politica: le munizioni si stanno esaurendo; gli alleati — compresa la nostra presidente del Consiglio nella celebre telefonata burla con il «comico» russo — si intrattengono volentieri sul tema della «stanchezza» per l’eccessiva durata del conflitto; il capo delle forze armate di Kiev, Valery Zaluzhny, in un irrituale intervento sull’Economist ha denunciato la posizione di «stallo» in cui si trovano i contendenti; le sanzioni internazionali alla Russia non hanno avuto, ad oggi, effetti apprezzabili; da Kiev si procede alla rimozione di alti ufficiali — ad esempio Viktor Khorenko comandante delle forze speciali — senza che ne siano date convincenti spiegazioni; un aiutante di Zaluzhny, Hennadiy Chastyakov, è rimasto ucciso mentre giocherellava con una granata (pensava fosse un giocattolo regalatogli da un collega); vengono alla luce numerosi casi di corruzione come, tempo fa, quello del colonnello Yevhen Borisov arricchitosi rilasciando falsi certificati d’esenzione dall’arruolamento; qualche migliaio di giovani ucraini in età di leva prova ogni giorno (e in molti casi riesce) ad espatriare. Zelensky, l’eroico ex comico, passerà alla storia per essersi battuto contro un’aggressione che aveva portato i carri armati nemici fin dentro casa sua, alla periferia della capitale.R esistendo con armi americane (è vero, ma anche gli irakeni e gli afghani erano armati dagli Usa e s’è visto come è andata) quell’uomo impavido oggi ha motivo di esser preoccupato. E financo di temere un colpo di Stato. L’unica sua fortuna è quella di avere scarse occasioni per cogliere l’eco di compiacimento dei suoi detrattori italiani. I sostenitori della tesi per cui, dal momento che il leader ucraino potrebbe essere costretto prima o poi ad accettare una soluzione di compromesso, ciò dimostrerebbe che avevano ragione loro a suggerirgli di arrendersi fin dall’inizio e di evitare quel mezzo milione di morti che, sulla base di questo ragionamento, vanno messi per intero sul suo conto. Oppure quelli che lo avevano avvertito essere colpa sua se la Russia avrebbe aggredito il suo Paese — cosa che peraltro prevedevano mai e poi mai sarebbe accaduta — dal momento che alcuni suoi predecessori quattordici anni prima (!) avevano chiesto l’adesione dell’Ucraina alla Nato. E questo aveva provocato a Mosca un angosciante senso di accerchiamento. Che poi sono quasi sempre le stesse persone che sostengono l’inopportunità di qualsiasi reazione ad ogni atto aggressivo. A cominciare da quella israeliana ad Hamas. E se chiedete loro quale debba essere il modo di rispondere ad un attacco — come quello del 24 febbraio 2022 o quello del 7 ottobre 2023, dei quali la storia si incaricherà di individuare eventuali elementi di parentela — vi rispondono con tortuose elucubrazioni che inevitabilmente si concludono con una sentenza di ulteriore punizione nei confronti dell’aggredito. Di conseguenza, se c’è un uomo che in questi giorni ha motivo di essere allegro questo è Vladimir Putin. Suscitando lo sdegno di pochi, ha appena rimesso in libertà uno degli uccisori di Anna Politkoskaja, Sergej Khadzhikvrbanov (condannato a vent’anni di carcere), per aver gloriosamente combattuto per sei mesi in Ucraina. Con sei mesi da mercenario quell’assassino si è risparmiato vent’anni di galera. Putin poi non è costretto a porsi il problema delle popolazioni sequestrate. Qualche giorno fa il cardinale Matteo Zuppi che molto si è speso per la restituzione dei bambini ucraini rapiti alle loro famiglie, ci ha rivelato in privato l’entità dei risultati fin qui raggiunti (senza però autorizzarci a darne conto pubblicamente). E noi — com’è ovvio — ci atteniamo all’impegno assunto con il presidente della Conferenza episcopale. Anche perché non abbiamo ben compreso come sarebbero avvenuti questi ricongiungimenti, se nella parte dell’Ucraina occupata dai russi o in quella libera, né cosa è stato concesso a Mosca in cambio di questi rilasci. Qualche dubbio ci è derivato dal fatto che le autorità ucraine — sia pure per via informale — non confermano la liberazione di quei bambini sequestrati. Ganna Yudkivska — per dodici anni (dal 2010 al 2022) giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, oggi vicepresidente di un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite che si batte contro la «detenzione arbitraria» — quantifica in 2,8 milioni gli ucraini deportati in Russia dall’inizio dell’invasione, «tra cui quasi ventimila bambini». Bambini di cui non si sa se siano ancora vivi, dati in adozione, oppure morti. Un fenomeno di dimensioni abnormi che — come l’esponente Onu ha dichiarato a Giacomo Gambassi di Avvenire — «viola leggi e norme umanitarie internazionali». Secondo Yudkivska, però, 360 di quei ventimila bambini sarebbero stati «rimpatriati». Anche qui non è dato sapere come, dove e quando. Comunque, sarebbero pochissimi, il che, per ammissione della stessa ex giudice, costituisce prova «degli ostacoli significativi che frenano molti sforzi». Impossibile a questo punto non rilevare che la storia di quei ventimila bambini — a parte l’impegno del cardinal Zuppi il quale però non dà l’impressione di sentirsi reduce da un’impresa culminata con un indiscutibile successo – non genera alcuna apprensione né emozione nel mondo pacifista. E se qualcuno come noi ha ancora l’occasione di occuparsene, il merito va per intero a Zelensky e quanti assieme a lui il 24 febbraio del 2022, anziché arrendersi e scappare come suggerivano i nostri amici di cui sopra (compreso all’inizio lo stesso Biden), opposero resistenza all’aggressione. E ancora resistono.