Di Matteo Matzuzzi del 01/02/2024
Roma. Il 2023 si è chiuso con l’ennesima strage di cristiani, ancora una volta in Nigeria, epicentro della persecuzione che non sembra avere mai fine: sono quasi 170, secondo l’ultimo bilancio, le vittime degli attacchi condotti per tre giorni di seguito contro le comunità cristiane nello stato di Plateau, nel cuore del paese. “Per coloro che credono che questo conflitto non sia religioso, quest’ultimo attacco dimostra che si tratta chiaramente di un conflitto religioso. Il fatto che abbia avuto luogo a Natale e che i cristiani siano stati deliberatamente presi di mira in una comunità mista, in cui i musulmani non vengono attaccati, manifesta chiaramente le caratteristiche di un conflitto religioso. So che non tutti vorrebbero ammetterlo, ma per me, che sono stato sul campo, ho osservato e scritto al riguardo, vi sono i segni di un conflitto religioso”, ha detto ad Aiuto alla Chiesa che soffre padre Andrew Dewan, direttore delle comunicazioni della diocesi di Pankshin, in Nigeria, nel cui territorio è avvenuta la strage. Gli attacchi si sono verificati in circa ventisei comunità soprattutto a Bokkos, ma anche in alcune parti di Mangu e nelle comunità locali di Barkin Ladi.
Le avvisaglie c’erano state da tempo e i responsabili erano stati individuati nei militanti musulmani, i fulani, pastori nomadi alla perenne ricerca di terre per i pascoli. Rapimenti, uccisioni e abusi sessuali finalizzati a sradicare da quella regione la presenza cristiana. I primi attacchi risalgono alla fine degli anni Novanta, ma è sotto la presidenza Buhari che si è avuta l’escalation, anche per una certa tolleranza mostrata dalle autorità nei confronti degli assalitori. Padre Dewan ha aggiunto che “le persone sono state uccise sommariamente, le case e il mais raccolto sono stati dati alle fiamme, anche le chiese e le cliniche sono state date alle fiamme. Quella mattina ero andato in quella stessa comunità per la messa di Natale per la comunità cattolica. Da Tudun Mazat, i terroristi fulani sono scesi a Maiyanga, uccidendo tredici persone. Nella notte sono state attaccate circa altre venti comunità”. Già nel 2018, il vescovo di Gboko, mons. William Avenya, parlava di “pulizia etnica in corso. Non commettete lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato. E sappiamo bene come è andata a finire”.
Il quadrante della caccia al cristiano non si limita all’Africa occidentale, perché non vi sono segni di tregua nemmeno in Nicaragua. Alla vigilia di Natale, era stato sottoposto a fermo giudiziario un sacerdote perché, durante l’omelia pronunciata nella cattedrale di Matagalpa, aveva ricordato il vescovo Rolando Alvarez, condannato a ventisei anni di carcere perché reo d’essere un “traditore della patria”. Infatti, per ordine di Daniel Ortega, è proibito menzionarlo sia nelle celebrazioni eucaristiche sia nelle semplici preghiere. E il líder sandinista ha anche fatto arrestare un altro vescovo, mons. Isidoro Mora Ortega, della diocesi di Siuna. Insieme a lui, la polizia ha portato in carcere anche due seminaristi. L’accusa è sempre la medesima: cospirare contro lo stato. A loro ha rivolto un pensiero il Papa, all’Angelus: “Seguo con preoccupazione quanto sta avvenendo in Nicaragua, dove vescovi e sacerdoti sono stati privati della libertà. Esprimo a essi, alle loro famiglie e all’intera Chiesa nel paese la mia vicinanza nella preghiera”, auspicando “il cammino del dialogo per superare le difficoltà. Preghiamo per il Nicaragua oggi”.