Ritornare a educare i figli per salvare l’Occidente una volta cristiano dalla morte per suicidio, seguendo il modello santo e concreto di san Giuseppe
di Aurelio Carloni
La celebrazione della festa di San Giuseppe offre l’opportunità per una riflessione sul ruolo della figura di padre, così come è vissuta concretamente oggi. Papa Francesco nella splendida lettera apostolica Patris corde, dedicata al santo nel 2020, ricorda come «padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.
Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre». Il Santo Padre riprende così un’espressione cara a san Giovanni Paolo II, che definiva i giovani come «orfani di genitori in vita». Ecco, quello che spicca in questa stagione buia dell’Occidente, che ha rinnegato le sue radici cristiane, è proprio l’abbattimento culturale e, nei fatti, di ogni autorità: divina, ecclesiastica, politica, sociale e, da ultimo, anche paterna.
Nella Relazione di apertura dell’anno giudiziario, commentata di recente dal magistrato Domenico Airoma, vice presidente del Centro Studi Livatino, c’è un dato che più di altri descrive l’assenza del padre come guida ed educatore dei figli. È quello della delinquenza minorile, che registra numeri in aumento in tutta la nazione. «In particolare – evidenzia la Relazione – nell’ultimo biennio l’incremento è significativo: nel 2021 sono stati 30.405 (più 15,7% rispetto al 2020) il 33.723 nel 2022 (più 10,9% rispetto al 2021)». Questi dati fotografano statisticamente la realtà, che si percepisce nella vita di ogni giorno oltre che dalla fruizione, anche solo superficiale, dei media digitali, televisivi e cartacei: ragazzi ancora minorenni che commettono in gruppo violenze sessuali aberranti, aggrediscono i propri docenti, rubano, spacciano.
Frotte di giovani che sfidano ogni fine settimana la morte, purtroppo spesso perdendo la sfida, correndo a velocità folle a notte inoltrata, dopo ore di sballo consapevolmente cercato. Le radici di questo fenomeno di auto-dissoluzione sociale e antropologica sono antiche, anche se l’abbattimento del concetto di autorità trova piena maturità e tragica evidenza nell’esplosione del ’68. Una tappa del processo rivoluzionario, definita in interiore homine dalla scuola controrivoluzionaria, che attraverso la contestazione di ogni autorità, anche paterna, ha preparato l’attuale “emergenza educativa”, con le conseguenze elencate sopra a titolo esemplificativo. Che cosa è avvenuto che giustifichi e spieghi questa crisi così profonda? Emanuele Samek Lodovici, filosofo raffinato e acutissimo, morto a soli 38 anni nel 1981, in una conferenza fino a poco tempo fa inedita (Una vita felice, Edizioni Ares, 2023), rispondeva così a questa domanda: «(…) occorre anzitutto ricordare che noi viviamo da tre secoli all’interno di quello che definisco come attacco macro-strutturale ai valori, ai valori che sono radicati e personificati nella tradizione occidentale cristiana. (….). Chiamo questo tipo di attacco macro-strutturale, di grande struttura, poiché muove contro il cristianesimo, per così dire sul piano speculativo: è un conflitto tra idee e visioni del mondo. (…) Sino al ‘68, in linea di massima, ci siamo trovati di fronte a una parabola di sistemi che si sono passati via via la palla nel tentativo di colpire il cristianesimo sul piano di principi, onde screditare la credibilità dei principi stessi quali l’immortalità dell’anima, l’esistenza del peccato originale, la condizione dell’uomo come essere finito e limitato, e così via».
Antonio Polito, editorialista e intellettuale riformista cresciuto alla scuola del Pci campano, ha scritto qualche anno fa (Marsilio 2017) un bel libro, Riprendiamoci i nostri figli. La solitudine dei padri e la generazione senza eredità, nel quale affronta il tema della paternità oggi. La profondità dell’analisi traspare subito nel passaggio, posto nella sua premessa, in cui si legge: «Temo che la generazione attuale non possa dire, come Bernardo di Chartres, un filosofo francese del dodicesimo secolo, “siamo come nani sulle spalle di giganti”. Oggi non è semplicemente un conflitto. È una separazione, una rottura, una soluzione di continuità tra le generazioni e non solo perché i ragazzi di oggi provano rabbia per essere nati senza la camicia, perché non siamo più in grado di garantire loro la società dell’opulenza in cui siamo cresciuti noi. Ma anche perché, insieme con il trasferimento del reddito si è interrotto il canale di trasmissione di molti altri beni. Di valori, di conoscenza storica, di credi religiosi, di senso comune, perfino di linguaggi. Si è aperto insomma un drammatico vuoto di tradizione, termine la cui etimologia viene per l’appunto dal latino tradere che significa tramandare, trasmettere». Questo vuoto, che è null’altro che il rifiuto di ogni trasmissione della conoscenza, è secondo Polito la base del modello rousseauiano del buon selvaggio, che trasferito nell’Èmile diviene, attraverso l’educazione senza valori e senza padri, l’unico modo per costruire “l’uomo nuovo” della Rivoluzione. Un tentativo che è costato nel Novecento per mano del totalitarismo socialcomunista la morte a più di 80 milioni di persone nel mondo. La morte del padre diviene così leva potente della crisi della famiglia, «terreno sul quale si vince la più generale guerra dichiarata a ogni autorità».
La ricostruzione del vuoto di autorità dell’editorialista appartenente alla famiglia ideologica del riformismo progressista è straordinariamente efficace e offre motivi di speranza come ha fatto notare di recente Marco Invernizzi in uno dei suoi messaggi settimanali. Ci sono intellettuali di sinistra che “inciampano nella realtà” e cadendo trovano fili logici che li portano ad abbracciare ideali, almeno alcuni, del pensiero conservatore. In chiusura, se i figli oggi sono orfani di padri in vita, che cosa rimane da fare per rimettere in moto la trasmissione di quei principi che diano senso alla vita e alla morte e rifondino una società in cui si possano vivere le gioie e i dolori tipici dell’esistenza degli uomini, senza l’angoscia che attanaglia i nostri giorni? Una possibile risposta, anzi la risposta, è nel fare apostolato con impegno e generosità senza scoraggiarsi, facendo conoscere innanzitutto la bellezza di quel Bambino Gesù che trovò il suo padre putativo in Giuseppe, al quale fu unito da un legame santo e umano nella famiglia e nel lavoro. In quel laboratorio di carpentiere dove il figlio imparò il mestiere del padre, nell’obbedienza e nel riconoscimento della sua autorità. E non dimenticando mai quanto il Papa dice a conclusione della Patris corde: «Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma segno che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico padre celeste, che “fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio». A chi crede, in questa festività suggeriamo di rivolgere a san Giuseppe la preghiera bellissima composta da Papa Francesco:
«Salve, custode del Redentore,
e sposo della Vergine Maria.
A te Dio affidò il suo Figlio;
in te Maria ripose la sua fiducia;
con te Cristo diventò uomo.
O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
e guidaci nel cammino della vita.
Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
e difendici da ogni male. Amen».
Lunedì, 18 marzo 2024