In una serie tv emerge la responsabilità di custodire e tramandare quanto ricevuto, e all’altezza di come è stato ricevuto. Pena la perdita dell’identità.
di Stefano Chiappalone
«La mia fortuna è opera di altre persone, che hanno creato una grande dinastia. Ho forse il diritto di distruggere il loro lavoro o d’impoverirne la casata? Io sono un custode, mia cara, non un proprietario. Devo sforzarmi di essere degno del compito affidatomi»: questa frase pronunciata da Robert Crawley, conte di Grantham, non è certo l’unica “da incorniciare” nell’intera serie di Downton Abbey, ma di certo ne riassume l’essenza. Una grande dinastia, di cui fa parte l’intero villaggio, che senza la tenuta e senza i Crawley sarebbe senz’anima e forse pure senza lavoro. Robert avverte la fierezza e la responsabilità di custodire e tramandare quanto ricevuto, non senza difetti e non senza sacrifici, prodigandosi per salvare le radici, anzi l’intero albero dal rischio della rovina e dall’onda d’urto della modernità: «Se potessi fermare il corso della storia», dice il conte, «è probabile che lo farei. Ma questo non è possibile, Carson, nessuno di noi può opporsi al cambiamento» – «Ed è una sciagura», replica l’autorevole maggiordomo Charlie Carson. Il «corso della storia» porta a Downton non solo l’auto, il telefono o il grammofono, ma anche lo scempio della Prima guerra mondiale.
Certo, la “voglia di modernità” insieme a qualche insofferenza per il protocollo (senza farsi mancare neppure qualche suggestione rivoluzionaria) penetra fin dentro l’illustre dimora, tra le figlie del conte o nella servitù. Eppure Downton resiste alla prova del fuoco. Sybil, la figlia minore, a un certo punto rasenta la rottura con la famiglia, quando comincia a frequentare comizi e poi scappa con lo chauffeur Tom, irlandese e fervente antimonarchico permeato di idee socialiste e persino irriverente verso la famiglia… che tuttavia diventerà la “sua” famiglia, anche e soprattutto dopo la morte prematura di Sybil. Per non parlare della figlia maggiore, Mary, che si potrebbe definire insieme scapestrata e saggia (ma nel corso della serie prevarrà la saggezza) e quasi naturalmente prende le redini dalle mani del padre nonché l’“anima” – per così dire – di Downton da sua nonna, l’argutissima e fulminante (e felicemente passatista) contessa Violet.
Non sappiamo come se la siano cavata dopo gli anni Trenta, quando il secondo film che segue le sei stagioni si conclude con la morte di Violet e la nascita di un nuovo membro della famiglia (figlio di Tom, nel frattempo risposatosi). Ma nel ventennio intercorso dall’inizio della serie (la prima stagione prende avvio dal naufragio del Titanic) si comprende che, sì, cambiamenti ce ne sono, ma i più importanti sono proprio quelli necessari a conservare Downton Abbey all’altezza di come è stata ricevuta. Anche la riparazione del tetto (che gocciola, come Mary mostrerà a suo padre che da troppo tempo non si recava in soffitta) non è questione di mera logistica, ma è dettata dall’amore per una realtà che non è solo materiale e – soprattutto – non è soltanto “roba loro”. Una realtà che li trascende simultaneamente nel tempo e nello spazio, poiché si estende agli antenati e al villaggio, attraverso un sensus traditionis condiviso così che anche i fittavoli “sentono” (e talora rivendicano) di essere lì da generazioni, di essere “parte” di Downton. Forma e sostanza si fondono: l’edificio con i suoi splendidi arredi, le consuetudini e i rituali ne sono l’involucro visibile e più esterno, ma senza di esso si disperderebbe l’anima di Downton, a scapito dell’intero villaggio.
A differenza dei Crawley, nella sesta stagione altre dinastie in nome della modernità e di una maggiore sicurezza economica abbandonano le rispettive tenute per andarsene a vivere in appartamenti più funzionali, dissolvendo un intero mondo di storie e di valori, frantumato come i mille pezzi d’arredo che finiscono all’asta. Immagine impietosa di quei «custodi» che si comportano da «proprietari», e di conseguenza si sentono autorizzati a rottamare in tutto o in parte l’eredità ricevuta, perché in fondo la disprezzano considerandola non adatta ai tempi, ma ne pagano il caro prezzo della perdita dell’identità. Ecco perché, citando ancora Robert, «se non rispettiamo il passato, difficilmente costruiremo il futuro»: lui sa bene che senza di loro Downton sarebbe vuota, ma senza Downton loro stessi non sarebbero più “loro”.
Sabato, 27 aprile 2024