Di Marcello Palmieri da Avvenire del 19/07/2024
«La sentenza ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, che punisce chi aiuta un’altra persona a togliersi la vita. Di conseguenza non ha creato nessuna nuova estensione, rispetto a quelle riconosciute con le pronunce del 2018 e 2019, del diritto di accedere al suicidio assistito. Per questo, sono piuttosto soddisfatto». Nel pensiero di Mauro Ronco, presidente del Centro Studi Livatino, docente universitario emerito di Diritto penale e vicepresidente del Comitato nazionale per la Bioetica, la Consulta ha dunque difeso in modo granitico le sue precedenti pronunce sul fine vita, lasciando scontento chi sperava in nuove aperture.
Nella sostanza, cosa dice la sentenza?
Innanzitutto, che per accedere al suicidio assistito la sottoposizione a un trattamento di sostegno vitale era e resta imprescindibile.
Però la Corte dice anche che trattamento di sostegno vitale può essere una manovra medica effettuata da un familiare, lasciando dunque intendere che non necessariamente debba esserci un macchinario, come per Fabiano Antoniani-dj Fabo…
È vero, ma in questo la Consulta non fa che mutuare la disciplina introdotta con la legge 219 del 2017: allora, per la prima volta, è stato detto che idratazione e nutrizione artificiali erano trattamenti medici rifiutabili dal paziente. Ora, dunque, ha chiarito che lo stesso vale per la morte a richiesta. Vi è solo una differenza concreta: la legge sul Consenso informato e le Disposizioni anticipate di trattamento vale per i casi in cui il paziente, rifiutando le cure, viene meno nel giro di brevissimo tempo. Il suicidio, invece, può essere richiesto qualora la rinuncia al trattamento sanitario provocherebbe una morte lenta e particolarmente sofferta. L’apertura, a mio avviso, è venuta nel 2017 con quella legge. Oggi, ma anche con la sentenza 242 del 2019 e la precedente ordinanza “Cappato– Fabo” numero 207 del 2018, la Consulta non ha fatto altro che recepire lo stesso principio e applicarlo alle persone che, sospendendo per scelta le terapie, e non giudicando per sé dignitosa la sedazione palliativa profonda, si sarebbero trovate in una lunga agonia.
Non sarebbe stato meglio definire esattamente cosa si intende per trattamento di sostegno vitale?
Teoricamente sì, perché quando si apre uno spiraglio questo va delimitato con precisione. Ma ciò avrebbe fatto a pugni con la realtà, perché la materia di cui stiamo parlando presenta casistiche talmente complesse e imprevedibili da sfuggire a qualsiasi tentativo di definizione chiusa.
La sentenza infatti affida ai giudici il compito di decidere cosa sia o meno trattamento di sostegno vitale…
Sì, ma offre una serie di criteri precisi. Lo ripeto: ciò che la legge 219 consente di rifiutare ora è requisito per farsi aiutare a morire. C’è una stretta analogia tra queste due discipline, lo strappo è stato fatto nel 2017. Non ora e nemmeno con le pronunce costituzionali del 2018 e del 2019.
Nell’impossibilità di indicare definizioni precise, come giudica i princìpi che la Corte pone a fondamento della propria decisione?
Alcuni sono molto importanti: per esempio, quello della dignità oggettiva della vita, che deve bilanciare il diritto all’autodeterminazione. E poi quello per cui la vita deve essere difesa non solo da pressioni di un terzo su una determinata persona ma anche da eventuali condizionamenti sociali, che potrebbero portare a ritenere che da un certo punto in avanti la vita potrebbe non avere valore. Queste affermazioni, al di là delle ricadute concrete nel caso specifico e in quelli simili, valgono anche per il quadro giurisprudenziale diffuso, nel senso che sono suscettibili di trovare operatività concreta, in futuro, anche in altri contesti. E ciò è davvero importante.