Di Danilo Taino da Il Corriere del 03/09/2024
Per quanto sgradevoli, i war games si moltiplicano: simulazioni di come potrebbe scoppiare, svilupparsi e terminare uno scontro armato. Soprattutto tra Stati Uniti e Cina. Anche nucleare. Confermano che il disastro sarebbe immenso, e da questo punto di vista sono utili. Rafael Grossi — il direttore generale dell’International Atomic Energy Agency, Iaea, un’agenzia delle Nazioni Unite — nei giorni scorsi è però stato più concreto, è andato oltre i giochi da tavolo e da computer. In un’intervista, ha sostenuto che, almeno dalla fine della Guerra Fredda, mai come oggi Paesi «importanti» parlano apertamente di dotarsi di un arsenale nucleare. E che l’ordine internazionale è messo sottosopra dalla nuova competizione tra potenze, le protezioni e le fedeltà di un tempo stanno saltando e, nell’incertezza conseguente, più di un governo pensa di doversi dare una propria arma decisiva per la deterrenza contro possibili nemici.
Secondo Grossi, il risultato è che il Trattato di Non Proliferazione Nucleare del 1968 (Npt) rischia di diventare carta straccia. Fino a ora, ha almeno in parte limitato il moltiplicarsi degli arsenali. Ma in che situazione ci troveremmo se le nazioni in possesso di armi nucleari passassero dalle nove di oggi a 14 o 15, una decina al di fuori delle limitazioni del Trattato stesso? Di questa eventualità, alcuni governi parlano apertamente, segno della caduta della «grande remora».
Ci sono Paesi — ha detto Grossi al Financial Times — «che hanno discussioni pubbliche su questo, il che non era il caso in passato. Lo dicono pubblicamente. Lo dicono alla stampa. Capi di Stato hanno fatto riferimento alla possibilità di ripensare l’intera questione».
L’alto funzionario dell’Onu non fa nomi. Ma è facile identificarli. Oggi, ci sono nove Paesi con arsenali nucleari. Cinque, sono i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina. Gli altri quattro non hanno firmato l’Npt e negli anni si sono dotati della bomba: India (1974), Pakistan (1998), Israele (che non lo ha mai ammesso ufficialmente), Corea del Nord (2006 dopo essere uscita dal Trattato). Fino a oggi, nessuno ha usato l’arma atomica, dopo l’agosto 1945 in Giappone.
Ora, c’è un Paese vicino a costruire un suo arsenale: l’Iran. Gli esperti ritengono che, se gli ayatollah volessero, potrebbero avere il primo ordigno in poche settimane, visto il livello di arricchimento dell’uranio che hanno raggiunto. Nell’ottobre 2003, il leader supremo Ali Khamenei emanò una fatwa contro la produzione e l’uso di queste armi. Ma i suoi consiglieri dicono che, di fronte a una minaccia esistenziale, cambierebbero dottrina. Il domino sarebbe immediato. Il principe della corona saudita, Mohammad bin Salman, ha chiarito che, se il nemico Iran si dota della bomba, anche l’Arabia Saudita dovrà «averne una». Questo in un Medio Oriente già oggi infuocato.
Per parte sua, Vladimir Putin e amici di tanto in tanto minacciano l’uso di armi nucleari tattiche. A Oriente, intanto, la Cina sta sviluppando a ritmo accelerato la sua forza nucleare. Oggi ha circa 500 testate (contro le 3.708 degli Usa e le 4.380 della Russia) e la previsione è che arrivi a mille in questo decennio. Pechino, riluttante a partecipare a colloqui per la riduzione degli arsenali, sostiene che l’ombrello nucleare che gli Stati Uniti offrono a europei e asiatici è una «seria violazione» del Trattato di Non Proliferazione: ma senza questo ombrello europei e asiatici dovrebbero aprirne uno loro. Washington non sta a guardare: nei giorni scorsi si è saputo che in marzo Joe Biden ha ordinato ai militari di prepararsi per un possibile attacco nucleare coordinato tra Cina, Russia e Corea del Nord. Corea del Nord che si sente sempre più sicura di sé grazie alla protezione di Mosca e Pechino: la Russia ha messo il veto, all’Onu, sulla conferma del monitoraggio delle sanzioni contro Pyongyang.
In Estremo Oriente e nel bacino del Pacifico, i governi tengono gli occhi puntati su Pechino e su Washington.
La Cina continua ad avere comportamenti aggressivi e coercitivi con Taiwan e nel Mare Cinese Meridionale contro le Filippine e nei giorni scorsi ha fatto volare, per la prima volta, un suo aereo militare sui cieli del Giappone. Nell’area, la questione centrale è il futuro di Taiwan. Se Pechino riuscisse a «conquistarla», in modo pacifico o con la forza, il colpo alla credibilità degli Stati Uniti nella regione sarebbe enorme: segno che Washington non riesce a difendere un Paese al quale ha promesso sostegno. La certezza dell’ombrello nucleare americano agli alleati in Asia verrebbe meno.
Giappone e Corea del Sud sarebbero sotto pressione per dotarsi essi stessi dell’arma atomica. Già ora, il 66% dei sudcoreani (che sentono la minaccia del Nord) dice di «sostenere» o «sostenere fortemente» la formazione di un deterrente nucleare nazionale indipendente. Opinioni rafforzate dalla possibilità che una prossima presidenza americana (Donald Trump o altri) tenda a disimpegnarsi nell’area: preoccupazione, questa, che corre anche a Taiwan, dove un tentativo di costruire l’atomica fu già fatto tra gli Anni Cinquanta e Settanta dall’allora dittatore Chiang Kai-shek. Anche l’Australia, se le cose si complicassero nell’Indo-Pacifico, prenderebbe in considerazione la stessa ipotesi. In Europa, si discute la possibilità avanzata da Emmanuel Macron di ampliare a tutto il continente la deterrenza nucleare francese. Nuovi scenari nei «giochi di guerra».