Riflessioni sull’ “uragano Donald” di fronte al suo nuovo inizio. Senza tifo da stadio, con tanto realismo e molta speranza
di Marco Respinti
Il 5 novembre 2024, Donald Trump ha vinto tutto quello che era umanamente possibile vincere. Ha vinto di amplissimo margine il voto nel Collegio elettorale, l’organismo che il 17 dicembre (secondo la legge federale) eleggerà la Casa Bianca con un voto che verrà poi rivelato il 6 gennaio. Ha vinto di gran margine il voto popolare, quello espresso dai cittadini, Stato per Stato, per orientare il Collegio elettorale. Il Partito Repubblicano con il quale Trump si è candidato ha vinto il Senato, strappando ai Democratici almeno 3 seggi e totalizzando una maggioranza che da anni non si vedeva in quell’organismo sempre sul filo del rasoio; ha conservato la Camera, che invece alla vigilia i commentatori (pur concedendo che forse i Democratici avrebbero perso il Senato, ma di stretta misura) dicevano sarebbe passato agli avversari; e ha vinto anche nella conta dei governatorati di Stato che erano in palio. Trump ha vinto anche la scommessa, le malelingue, gli uccelli del malaugurio, il fuoco di sbarramento di media e celebrità, le calunnie e tutti i tentativi profusi per metterlo in difficoltà, compreso il plauso puramente pedagogico della stampa straniera (per esempio italiana) lanciatasi con foga degna di miglior causa nell’ingiuria verso un candidato di un agone in cui ovviamente non vota, giusto per educare gramscianamente il mondo.
Trump è stato eletto presidente per la seconda volta, dopo l’interludio di una sconfitta pesante, macchiata di sospetti e di violenze, di per sé in grado di mettere fuori combattimento forse chiunque altro. Trump, cioè, è un presidente forte, molto più forte di quando fu eletto la prima volta nel 2016, coronato dal successo in modo molto più lineare, molto più rapido, senza partita vera per gli avversari, sbaragliando i pronostici.
Il male che conosciamo
Ma checché ne dicano quegli opinion maker, che, con tifo da stadio, non si arrendono al secondo smacco che il neopresidente e il suo mondo sono stati di nuovo capaci, dopo quanto successo nel 2016, di infliggere loro, Trump non è un uomo solo al comando, non è un monarca assoluto e tantomeno un dittatore, non è il pericolo fascista che avanza, non è nemmeno l’uomo forte. Non è neanche l’uomo della Provvidenza. È sempre e solo Trump: il Trump che abbiamo già visto e che conosciamo, dunque che riserva pure molti lati indecifrabili, l’uomo che sfugge agli incasellamenti, non impossibile da prevedere ma sempre generoso di soprese, inquietante come chiunque lo è al vertice del Paese più potente del mondo e al contempo rassicurante, giacché, come diceva lo scrittore statunitense Ambrose Bierce (1842-1914?), il conservatore è il tipo umano innamorato dei mali esistenti e si distingue dal liberal che desidera invece rimpiazzarli con mali nuovi. Il male che conosci, infatti, è cento volte preferibile ai mali ignoti, al contrario del bene, motivo per cui il bene migliore può giungere quando meno lo aspetti.
Fra i mali noti di Trump c’è che la crescita esponenziale del suo potere possa trasformarsi in hybris e fargli decidere, non avendo egli più nulla da perdere (se non tutto), e non dovendosi più ripresentare all’elettorato, di disfare il bene precedentemente operato. Ma è vero anche il contrario. Trump potrebbe fare anche meglio di quanto fatto durante il primo mandato, e il fatto che non abbia sì nulla da perdere (se non tutto), nemmeno davanti all’elettorato, non è detto inclini per forza al negativo. Il sottotesto qui è che, durante il primo mandato, Trump del bene lo ha fatto. Rectius: Trump si è messo a disposizione, anche inconsapevolmente, affinché del bene potesse essere fatto, anche tramite lui. Per certi versi, si è lasciato fare. C’è sempre un merito in questo (che non spetta ovviamente a chi qui scrive giudicare), poiché il bene non è automatico: ci si può sempre negare a esso.
Bene inteso, fra 2016 e 2020 Trump non ha fatto solo del bene, ma del bene lo ha fatto. E questo, in tesi possibile per qualunque essere umano, in pratica non si può invece forse dire di tutti gli esseri umani: o quantomeno l’uno può oscurare l’altro.
Il bene possibile
Ora, basterebbe questo. Basterebbe una riedizione, anche moderata, del primo Trump. Non c’è bisogno, cioè, di strafare, di esagerare, di inventare. Basta restare fedeli, nel piccolo, quindi nel grande. Il primo Trump ha fatto molto per tenere sopra la linea di galleggiamento lo spirito profondo e vero di un Paese intero, la dignità della persona umana, persino i princìpi non negoziabili. Trump ha fatto qui così bene da rendersi perfettamente sacrificabile, com’è nelle cose. Non nobis, Domine. Un presidente infatti passa e va, ma passa alla storia se e quando incide con decisioni che persino gli sopravvivono. Il bene forse maggiore per il quale Trump non ha marcato visita resta l’avere inciso, attraverso nomine sancite poi dall’apposito organismo del Senato federale, di ben tre giudici per la Corte Suprema federale che hanno cambiato il volto di quell’assise. Di più: hanno fatto e quindi hanno mutato la storia.
La maggioranza determinante venutasi a creare con le nomine trumpiane di Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh ed Amy Coney Barrett ha permesso una inversione della rivoluzione in atto in uno dei gangli vitali del Paese, un avvenimento epocale su cui andrebbero scritti libri e di cui soltanto la pusillanimità può non accorgersi. La Corte Suprema permessa dalle nomine di Trump è tornata a vincolare la Costituzione del Paese a quell’identità conservatrice e non giacobina che è la matrice di quella esperienza storica, laddove qui conservare vuol dire preservare il bene di cui le cose e le persone sono fatte e in cui nascono, e il termine giacobinismo indica invece l’odium a tutto quello. Facendolo, la Corte Suprema trumpiana ha inaugurato una restaurazione di cui forse solo i posteri coglieranno i frutti interi, e nel farlo ha fra l’altro strappato le erbacce disseminate nel campo nel 1973 da un Corte Suprema diversa, la quale, strafacendo, esagerando, rivoluzionando, ha inventato di sana piana un presunto “diritto” che ha incamminato il Paese sulla strada del nulla sul piano giuridico prima ancora che su quello del sangue innocente versato, e che comunque, versando quel sangue, si è resa disponibile a un male enorme che ha sacrificato milioni e milioni di anime innocenti.
Ebbene, Trump non era più alla Casa Bianca quando la Corte Suprema compì quell’atto meritorio agli occhi della storia e del Cielo. Il suo mandato era terminato. Ma il miglioramento strutturale cui Trump si era prestato ha lavorato secondo una road map e ha dato frutto. Un presidente entra nella storia così.
La storia
Adesso il secondo Trump in quella storia deve rimanerci. Non deve arretrare, tornare indietro, volgersi. Va detto subito, in questo momento, prima che mali possibili (i mali sono sempre possibili) possano accadere e Trump distrarsi, rinunciando a mettersi ancora e sempre a disposizione del bene possibile.
E poi arriverà il giorno, fra quattro anni, in cui Trump darà l’addio alla Casa Bianca. Il giorno in cui non potrà più mettersi a disposizione di un bene possibile dal vertice del Paese più importante del mondo. Potrà certo continuare a mettersi a disposizione del bene possibile, ma altrove, non più nella Casa Bianca. Come Trump uscirà dalla Casa Bianca, e cosa resterà di lui nei libri di storia, Trump se lo sarà guadagnato però non il giorno in cui uscirà di scena, bensì prima. In parte lo ha fatto fra 2016 e 2020, in parte lo farà da oggi al 2028, a Dio piacendo. È il modo in cui un presidente abita la Casa Bianca che illumina il modo in cui un presidente lascia la Casa Bianca nell’ultimo dei suoi giorni.
Quel giorno si potrà anche ragionare del dopo. Iniziare a farlo prima è più che opportuno, ma solo allora il campo sarà sgombero da luci non necessarie che potrebbero accecare. A quel punto si dovrà ragionare di molte cose. Fra queste, interrogarsi sul Partito Repubblicano, quel buon partito conservatore e sensibile ai princìpi non negoziabili che Trump voleva smantellare salvo non farlo. Per certo il partito, attraversato dall’“uragano Donald”, non è più lo stesso. Molte dinamiche sono mutate. Sarà stata solo una deviazione temporanea, per quanto lunga, o verrà sancita una trasformazione incontrovertibile? Rispondere a questa domanda è decisivo per almeno un motivo dirimente: sapere chi è chi dopo, dal 2028 in poi; sapere chi potenzialmente si renderà disponibile per la verità delle cose e chi no; sapere se ci può essere un futuro per quel veicolo politico che ha sempre più nei decenni saputo mettersi a disposizione di un bene possibile o se bisognerà pensare ad altro, persino ricominciare, e poi sul perché di questo.
Exeunt dramatis personæ
Occorrerà poi interrogarsi sul senso dell’essere conservatori negli Stati Uniti dopo, e la domanda non è peregrina, se il conservatorismo è non una giacca double-face e intercambiabile a seconda del meteo, bensì una forma mentis, un’attitudine del cuore, una divisa di vita, una vocazione a disporsi per servire il bene possibile e la verità delle cose, come i suoi maestri, i suoi apologeti e i suoi interpreti migliori hanno insegnato e vissuto. Trump ha infatti messo mano anche a tutto questo, e non sempre in modo felice.
Non resta, ovvio, che attendere e osservare, interpretare e valutare, con una certezza grande nel cuore. Comunque sia, e per i motivi ricordati, Trump è già nella storia. Ha già quindi in parte ipotecato il modo con cui uscirà dalla Casa Bianca attraverso il modo in cui ha già abitato la Casa Bianca, e questo nemmeno i suoi avversari possono negarlo. Possono detestarlo e combatterne il senso, ma non possono negarlo. Chi invece Trump non lo avversa non lo scordi, qualunque cosa possa accadere. Sarà sempre un bottino ricco di cui disporre, anche senza Trump e magari persino malgrado Trump, se questo fosse il caso.
Giovedì, 7 novembre 2024