Marco Respinti, Cristianità n. 234 (1994)
Intervista con il professor Thomas J. Fleming
Gli Stati Uniti d’America fra George Bush e Bill Clinton
Nel 1993 il professor Thomas J. Fleming ripercorse alcuni passaggi importanti della storia della «vecchia America», offrendo una lettura originale e conservatrice della fondazione della nazione, nel corso di un’ampia intervista, da me curata, intitolata Stati Uniti d’America: l’Old Republic come Ancien Régime (Cristianità, anno XXI, n. 217, maggio 1993). In quell’occasione presentavo, fra l’altro, i dati bio-bibliografici dello studioso nordamericano, ai quali si deve aggiungere che Thomas J. Fleming è membro della prestigiosa fondazione conservatrice The Philadelphia Society, anima – con altri – il John Randolph Club e opera come consigliere per la fondazione The American Cause. Quest’istituzione è stata creata, ed è diretta, da Patrick J.Buchanan, già candidato nel Partito Repubblicano alle elezioni primarie per le presidenziali del 1992 come principale antagonista di George Bush che, ottenuta la nomination del partito, sfidò, poi, il candidato del Partito Democratico Bill Clinton e perse le elezioni, ponendo termine all’amministrazione repubblicana che durava da dodici anni.
In occasione di un suo nuovo viaggio in Italia – fra marzo e aprile del 1994 –, che gli ha permesso di incontrare esponenti e operatori di alcuni settori della cultura, della politica e della piccola industria lombarda, oltre a scrittori, poeti e studiosi, Thomas J. Fleming ha tenuto alcune conferenze.
L’11 aprile 1994, a Milano, l’oratore – su invito del CE.R.G.E.S., il Centro Ricerche Giuridiche ed Economico-Sociali, e dell’UNITRE, l’Università della Terza Età – ha trattato de Il federalismo statunitense: potere e Welfare State. Annunciato su il Giornale l’8 aprile e svoltosi in un’aula dell’UNITRE, l’intervento è stato preceduto dalle presentazioni del professor Silvio Bolognini, presidente dell’UNITRE milanese, e della professoressa Serena Manzin, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Fra i presenti, il professor Francesco Badolato, traduttore, curatore e critico dell’opera dello scrittore inglese George Gissing, definito da Russell Kirk un «Tory naturale» (The Conservative Mind. From Burke to Eliot, 7a ed. riveduta, Regnery Gateway, Chicago-Washington 1986, p. 381).
La seconda conferenza si è svolta il 13 aprile, nella Sala delle Colonne Verdi della parrocchia di Santa Francesca Romana, sempre nel capoluogo lombardo; organizzata da Alleanza Cattolica, ha avuto come tema La politica statunitense oggi: la questione del Welfare State. Da me introdotto e presentato, l’oratore – al termine del suo intervento – ha risposto a diverse domande del pubblico, che comprendeva Mario Marcolla, scrittore e studioso del mondo nordamericano; il professor Giuseppe Podestà del CE.I.S.LO., il Centro Internazionale di Studi Lombardi di Olginate, in provincia di Como; e la dottoressa Germana Paraboschi, autrice del volume Leo Strauss e la destra americana (Editori Riuniti, Roma 1993). Un’intervista con lo studioso nordamericano – raccolta nell’occasione – è comparsa, a cura di Fabrizio Crivellari, su L’Italia settimanale (anno III, n. 25, 29-6-1994), con il titolo Si chiama Aristotele il papà di Miglio.
Infine, il 17 aprile, Thomas J. Fleming ha trattato de Le problematiche del federalismo negli Stati Uniti d’America, nell’ambito della seconda giornata del Week-end federalista, organizzato presso la sede del CE.I.S.LO., in Olginate, dal Movimento Federalista Europeo – fondato da Altiero Spinelli – e intitolato L’Unità europea e il federalismo.
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A partire dagli elementi maggiormente legati alla situazione politico-culturale attuale, presentati dall’ospite in sede di conferenza, ho rivolto a Thomas J. Fleming alcune domande intese a proseguire la riflessione sulla storia contemporanea nordamericana, intrapresa mediante testimonianze dirette di personalità culturalmente significative del paese e iniziata con l’intervista, da me curata, con Russell Kirk, Dove vanno gli Stati Uniti? La politica estera americana e il «Nuovo Ordine Mondiale» (Cristianità, anno XIX, n. 195-196, luglio-agosto 1991).
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D. Oltre a certe «cronache rosa» e all’interesse prevalente per scandali di vario tipo – pur rilevanti – mostrato dai mass media, esiste un’ideologia precisa a cui il presidente americano Bill Clinton si richiama?
R. Ai tempi del college – come afferma chi lo conosce da allora – Bill Clinton appartenne alla sinistra anti-patriottica, estrema e radicale, con la quale organizzò dimostrazioni, anche all’estero, contro la presenza statunitense in Vietnam. Pur da oppositore di quella guerra, provo risentimento verso quanti si recano in paesi stranieri e prendono parte a manifestazioni unti-americane: manifestare in Gran Bretagna o in Unione Sovietica non è certo il modo giusto per dar vita a un’opposizione politica, specialmente quando i giovani soldati americani di leva venivano obbligati a combattere quella guerra. Bill Clinton non ha mai abbandonato, ideologicamente, la sinistra estrema.
L’Arkansas, patria del presidente, è uno Stato povero del Sud, abitato da operai e da lavoratori bianchi, politicamente conservatori, spesso e spregiativamente definiti redneck, «collo rosso». In questo Stato, per molti aspetti conservatore, ha avuto origine, in America, un socialismo di tipo radicale. Un esempio. Nel 1957, il ben noto governatore dell’Arkansas Orval Faubus si oppose all’integrazione razziale nelle scuole della capitale dello Stato, Little Rock, un provvedimento introdotto dalla sentenza della Corte Suprema – guidata dal giudice Earl Warren – nel caso Brown contro il Provveditorato agli Studi di Topeka, nel Kansas, del maggio del 1954. Ora, Orval Faubus viene sempre presentato come esempio di conservatore sudista: in realtà, fu socialista per tutta la vita. Il Partito Democratico, nell’Arkansas, è sempre stato un tipico partito socialista. Un fatto storico da noi non sempre e completamente compreso.
Bill Clinton, uomo della sinistra radicale, si è reso conto della necessità – per poter vincere le elezioni del 1992 – di apparire in panni moderati. Infatti, un uomo pubblicamente accreditato come «di sinistra», non riesce a essere eletto presidente degli Stati Uniti d’America, così come non può riuscirvi un ateo. Diventa necessario «recitare»: questa è la ragione per la quale un socialista stimato come Walter Mondale, del Partito Democratico, venne battuto da George Bush, del Partito Repubblicano, nelle elezioni presidenziali del 1988. In quell’occasione, George Bush condusse una campagna elettorale assolutamente disonesta, essendo in disaccordo con l’avversario solo su piccoli dettagli. Walter Mondale – come dicevo –, uomo d’onore, sostenne, invece, apertamente quanto riteneva fosse vero… Per quanto riguarda la questione dell’ateismo, uno come Bill Clinton – che non crede in null’altro che in sé stesso e che non ha mai mostrato la benché minima traccia di una genuina fede religiosa – ha dovuto presentarsi al pubblico come «buon cristiano» e farsi vedere in chiesa. Fa tutto parte di un’ipocrisia nazionale americana…
Dunque, il presidente è un uomo profondamente di sinistra, che ha imparato il pragmatismo della politica da governatore dell’Arkansas; la sua ben nota moglie Hillary, poi, è ancora più a sinistra di quanto non sia il presidente…
D. La sua amministrazione politica è un esperimento in vista di una sorta di «via americana al socialismo», magari secondo modalità temporeggiatrici di tipo fabiano?
R. Sostanzialmente fin dagli anni Quaranta gli americani hanno percorso una via graduale verso il socialismo, che però aveva avuto inizio all’epoca dell’elezione presidenziale del repubblicano Herbert Hoover, nel 1928; dunque, non solo nel successivo periodo rooseveltiano, come viene normalmente ritenuto. Dopo la seconda guerra mondiale furono compiuti alcuni tentativi per ridimensionare questa tendenza verso la creazione di uno Stato socialista, intrapresa da Franklin Delano Roosevelt soprattutto in occasione del conflitto stesso; ma, dal 1948, questo processo ha compiuto progressi. Bill Clinton rappresenta semplicemente il passo da noi più avanzato verso il tipo di economia che ha rovinato l’Unione Sovietica: sembra che il presidente non abbia imparato nulla da quell’esperienza storica. Se si considerano le sue proposte per il sistema sanitario nazionale e per l’ambiente, o il suo approccio al problema della criminalità, si vede come l’obiettivo sia quello di creare organi per la pianificazione centralizzata a livello nazionale, che dovrebbero, da Washington, dirigere l’intero paese. I membri del Partito Repubblicano, purtroppo, stanno dando vita a un’opposizione parziale: solo l’incapacità e l’inettitudine del presidente, nonché la sua impopolarità, impediscono che alcune di queste proposte di legge vengano varate concretamente, e non la resistenza esercitata dagli avversari.
D. Le differenze ideologiche fra George Bush e Bill Clinton sono, allora, molto meno marcate di quanto, normalmente, si ritenga…
R. Walter E. Williams, economista nero favorevole al libero mercato, ha parlato di un’«amministrazione Bush-Clinton». Io parlerei addirittura di un’«amministrazione Reagan-Bush-Clinton», almeno per quanto riguarda il secondo mandato – dal 1984 al 1988 – del1‘ex governatore della California.
Quando Ronald W. Reagan venne eletto alla presidenza nel 1980, si parlò di una sorta di «rivoluzione» nella politica statunitense, basata sul ritorno al libero mercato in opposizione alla pianificazione economica; sul regresso dell’apparato burocratico nazionale; e sulla promessa di modificare i ministeri dell’energia e dell’educazione. Inoltre, Ronald W. Reagan si era gradualmente guadagnato l’appoggio dei protestanti evangelici del Sud: sebbene lui stesso fosse divorziato e avesse un magro carnet – durante il suo governatorato californiano – in tema di aborto, abbracciò il movimento a favore della vita, così che tutti i grandi leader protestanti del Sud lo sostennero. Ronald W. Reagan, a fronte di quest’aspettativa popolare, fece dei tentativi, nei primi sedici mesi del suo mandato, per mantenere le promesse di libero mercato, anti- statalismo e fìlo-cristianesimo.
Ma è stato detto che, durante la campagna elettorale, volendo – giustamente – favorire il mondo delle piccole e delle medie imprese, non riuscì a raccogliere grosse somme di denaro per l’opposizione del big business, del mondo delle grandi concentrazioni capitalistiche. Dunque, sarebbe stato organizzato un incontro con i rappresentanti di quel mondo, nel corso del quale il futuro presidente avrebbe assicurato anche la promozione degli interessi del big business; il denaro cominciò a giungere in quantità… Non molto tempo dopo l’elezione iniziarono i compromessi e molti conservatori assunti dal capo dell’esecutivo vennero licenziati. Alla conclusione del primo mandato reaganiano, sebbene fossero stati adottati buoni provvedimenti come il taglio delle imposte e la deregulation – la de
regolamentazione per l’economia nazionale –, molte questioni morali – che più interessavano la destra cristiana – erano state aggirate.
Durante il secondo mandato, il capo dello staff presidenziale James Baker e l’allora vicepresidente George Bush ottennero un’influenza preponderante, certamente in politica interna. Questo periodo, che
si dovrebbe chiamare «amministrazione Reagan-Bush», costituì qualcosa d’insolito, dato che negli Stati Uniti i vicepresidenti normalmente non contano nulla. Ma, al contrario, sarebbe un grosso errore considerare la vicepresidenza di George Bush in questi termini, specialmente per l’apporto dell’amico James Baker, un genio malvagio…
George Bush è sempre stato un repubblicano moderato, il che significa un esperto nell’arte del compromesso, uno che non può permettersi di avere principi: tutto ciò in cui sembra aver creduto è stato il diritto dei grandi e ricchi uomini d’affari delle multinazionali a governare il mondo. Così, gran parte della politica interna ed estera di George Bush è dettata da questa preoccupazione per l’economia multinazionale. Ora, le Corporation multinazionali sono perfettamente soddisfatte di operare all’interno di Stati socialisti tendenzialmente distruttori di ogni competizione: la concorrenza è l’ultima cosa al mondo voluta da queste gigantesche compagnie e l’effetto delle regolamentazioni statalistiche – su qualsiasi tipo di azienda – è il vantaggio particolare garantito alle grosse compagnie rispetto alle piccole. Per esempio, l’introduzione di certe regole – tenere i libri contabili, pagare le tasse, osservare norme ambientali e di sicurezza –favorisce i possessori di enormi catene di negozi, che possono permettersi personale esclusivamente adibito all’evasione delle pratiche burocratiche; il proprietario di un singolo esercizio, invece, impiegherà metà del proprio tempo per occuparsi di quanto richiesto a livello federale e finirà per chiudere. Queste leggi nazionali – veri lacci – spingono il piccolo imprenditore fuori dal mercato.
Il big business, al contrario, si trova completamente a proprio agio con il socialismo e negli Stati Uniti d’America vi convive fin dagli anni Quaranta: se, negli anni Trenta, le grandi concentrazioni capitalistiche tentarono di resistere al sistema socialistico roosveltiano, ne impararono, poi, l’utilità. Quando Walter E. Williams fa riferimento all’«amministrazione Bush-Clinton», intende più o meno affermare l’esistenza di una ideologia comune ai due presidenti: George Bush ne è un rappresentante moderato, mentre Bill Clinton un fautore se non radicale, certo più deciso.
D. A proposito di regolamentazioni economiche, si è fatto un gran parlare del NAFTA, il North American Free Trade Agreement, ossia l’accordo per i liberi scambi commerciali nei paesi del sub-continente nordamericano. Cosa pensa di quest’intesa?
R. Se i paesi dell’America Settentrionale avessero voluto promuovere il libero commercio, avrebbero potuto facilmente ridurre le tariffe doganali, senza bisogno di alcun documento d’intesa. Per quanti credono nel commercio libero come fosse una specie di divinità o di idolo, non è importante che anche altri pratichino la stessa politica economica: il paese più liberista, secondo questa visione, finisce per attrarre i capitali degli altri. Ma, anziché abbassare le barriere d’imposte doganali in tutta l’America e anziché stipulare un accordo specifico e concreto fra Stati Uniti d’America, Messico e Canada, è stato prodotto un documento di molte migliaia di pagine che dovrebbe specificare patti assai complicati; sono stati creati anche speciali uffici con il compito di liberalizzare il commercio. In realtà, è stato istituito un sistema regolamentativo multinazionale che controllerà e governerà le politiche commerciali, nell’interesse di chi ha pagato per lanciare il NAFTA. Chi ha versato tale denaro? Innanzitutto, il governo del Messico tramite un grande numero di lobbysti a tempo pieno – non si tratta di una notizia scandalistica, ma di un fatto ben documentato – inviati a Washington per raggiungere le tasche dei membri del Congresso degli Stati Uniti d’America. In secondo luogo i grandi uomini d’affari statunitensi, che hanno versato ingente quantità di denaro nelle casse del portavoce del big business nostrano, il quotidiano The Wall Street Journal; un buon comunista chiamerebbe questo giornale il lacchè dell’imperialismo capitalista…
Ancora, in merito alla domanda cui prodest?, la risposta riporta l’attenzione sul grande finanziatore messicano: il governo, certo non il popolo costretto a vivere in un sistema corrotto e oppressivo simile a quello sovietico; uno Stato marxista dove più del 50% della gente lavora per il governo, ossia non lavora affatto. Al tempo della nazionalizzazione delle banche, i canali televisivi mostrarono funzionari in festa: affermavano che, da quel momento, sarebbero stati come chiunque altro in Messico, cioè avrebbero smesso di lavorare…
È chiaro che lo scopo del NAFTA è assolutamente estraneo al concetto di libero commercio e che, in realtà, è una truffa. La classe media corre gravi pericoli e non vedo perché una nazione debba sacrificare gl’interessi dei propri lavoratori a vantaggio del big business, o per arricchire il governo messicano truffatore e disonesto. Inoltre, quest’accordo economico rappresenta il primo passo verso una comunità di Stati che calpesterà tutte le piccole comunità in cui si svolge la vita quotidiana reale.
D. La Sinistra statunitense mantiene ancora le posizioni di egemonia culturale che conquistò negli anni Sessanta e Settanta?
R. Sì, e il suo potere è aumentato durante il periodo di Ronald W. Reagan, invece di diminuire. È chiaro, se si pensa, per esempio, all’aumento della pornografia nei film trasmessi dai grandi canali televisivi. È altrettanto evidente per quanto concerne il progresso fatto dal movimento per i diritti degli omosessuali. Quando Ronald W. Reagan fu eletto nel 1980, questo movimento veniva considerato uno strano elemento di frangia, privo d’importanza. Oggi è una componente fondamentale della grande coalizione del Partito Democratico ed è divenuto impossibile criticare il concetto di «diritti degli omosessuali» o allontanare tali soggetti da posizioni di responsabilità nelle scuole per ragazzi e dall’esercito. Non si tratta assolutamente di voler perseguitare gli omosessuali, ma questo è un chiaro – anche se piccolo – esempio del cammino egemonico percorso dalla Sinistra.
Nelle università e nei gangli della cultura, la Sinistra moderata assunse il potere negli anni Trenta: da allora il mondo accademico si è spinto di anno in anno più a sinistra e più rapidamente che mai negli anni Ottanta. Infatti, in questo decennio le cattedre vennero occupate da chi, negli anni Sessanta e Settanta, era stato un rivoluzionario marxista.
Eliminati dai programmi scolastici l’apprendimento delle lingue straniere, della letteratura e della storia europee, nonché la composizione in lingua inglese, sono stati introdotti corsi di «addestramento alla sensibilità» per stimolare l’attenzione verso le minoranze, gli omosessuali, e così via. Gli studenti del primo anno, in decine di college statunitensi, vengono costretti a subire questa forma di «riprogrammazione». Il risultato è stato il disprezzo degli studenti verso i docenti e il risentimento verso le minoranze. Recandomi nei campus universitari per conferenze, avverto, fra i ragazzi, un sentimento genericamente «di destra»: ma, dopo circa vent’anni di cattiva scolarizzazione, l’ignoranza è quasi totale, così che non si sa più quale civiltà difendere…
D. Durante l’amministrazione Bush – e in occasione della guerra che ha opposto la coalizione militare dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, capitanata dagli Stati Uniti d’America, all’Irak – si è parlato ampiamente del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale, un regime politico che – secondo l’interpretazione di Francis Fukuyama (cfr. La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it., Rizzoli, Milano 1992) – sarebbe dovuto scaturire anche dal trionfo internazionale del liberalismo e del «modello americano». Come giudica questa politica estera e, in generale, l’interventismo nordamericano?
R. George Bush fu molto chiaro sui propri obiettivi. L’amicizia con l’ex leader sovietico Mikhail S. Gorbaciov poggiava sul progetto di un mondo tranquillo, sotto l’egemonia sovietico-americana. Poi venne il collasso dell’impero sovietico, seguito dall’apparente impotenza russa: dico apparente, in quanto la Federazione Russia possiede ancora l’esercito più numeroso e meglio equipaggiato del mondo, oltre a un’eccellente nucleo di ufficiali, leale e devoto. Non amo dirlo, ma tutto quanto riguarda l’esercito ex sovietico è di qualità: era una decisa minaccia dieci anni fa, ma quel pericolo è reale oggi come sempre. Gli ex sovietici sono solo momentaneamente distratti…
Il crollo dell’Unione Sovietica ha lasciato agli Stati Uniti d’America il ruolo di unico grande attore sulla scena mondiale; il governo di Washington consulta i suoi cosiddetti alleati, che in realtà sono solo satelliti. Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia sono stati per anni, in questioni importanti di politica estera, marionette del regime nordamericano e, fin dalla crisi del Canale di Suez, in Egitto, nel 1956, non hanno più osato agire indipendentemente. George Bush e i suoi amici hanno compreso che, una volta iniziato il declino della potenza sovietica, sarebbe stato per loro difficile continuare ad amministrare la «propria parte del mondo», in quanto non esisteva più il nemico, la minaccia comunista, a giustificare alcune misure adottate. Dunque, l’obbiettivo – ormai perfettamente esplicito – è divenuto quello di creare un Nuovo Ordine Mondiale, simulando un nuovo internazionalismo dove organismi come ONU o NATO vengono utilizzati quali strumenti della politica estera statunitense. Ma, fin dagli anni Sessanta, l’ONU – o quanto meno l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – è stata uno strumento per la promozione della Rivoluzione nel Terzo Mondo. Quindi, non vi è ragione per credere che le diverse nazioni del mondo diventeranno sudditi tranquilli di un impero nordamericano.
Ad altro livello, è pure vero che George Bush e le persone che rappresenta non sono di per sé interessate agli Stati Uniti d’America. Per fare un paragone, una persona come Ronald W. Reagan era un nazionalista, come lo fu – a modo suo – Josef Vissarionovic Stalin. George Bush assomiglia maggiormente a Lev Trotzky: crede in un ordine capitalista internazionale, non in uno nazionale. L’importante, per lui, era rendere il mondo sicuro per gli affari internazionali; non si preoccupò che gli statunitensi prevalessero in questo scenario, una «visione volgare» alla quale fu opposto il successo dell’impianto generale.
I primi mesi dell’amministrazione Bush furono caratterizzati da un’atmosfera molto serena: gli Stati Uniti d’America ritenevano di aver vinto tutte le battaglie e che la storia – come affermò Francis Fukuyama, uno dei grandi «idioti» di questo secolo – si stesse avvicinando alla propria conclusione, sostanzialmente lasciandosi alle spalle questioni come i conflitti ideologici e le lotte nazionali. Purtroppo, né Saddam Hussein, né Slobodan Milosevic, né Muhammed Aidid hanno letto quanto scritto da Francis Fukuyama, decidendo di perseguire vigorosamente i diversi interessi dei propri paesi e opponendosi al tentativo di creare un nuovo ordine americano… In ognuno dei casi citati si è verificata una rappresaglia massiccia da parte statunitense.
Ma l’impotenza di persone come George Bush è dimostrata dal fatto che, se Saddam Hussein è ancora al potere in Irak, l’allora presidente americano è oramai in pensione. Siamo stati capaci di bombardare i centri irakeni abitati da civili – uccidendo un grande numero di donne e di bambini – e di distruggere la maggior parte dell’aviazione e delle forze terrestri del paese, ma non siamo riusciti a conquistare l’Irak. Non ne avevamo la volontà, in quanto questo obiettivo avrebbe richiesto una guerra di terra, con combattimenti di villaggio in villaggio e casa per casa. Gli Stati Uniti d’America non erano interessati a questo, ma solo a bombardamenti aerei da alta quota, con i quali si potevano cancellare migliaia di persone al suolo, senza patire alcuna perdita.
Bill Clinton, oggi, è meno sicuro dell’idea di un ordine internazionale, in parte perché il suo retroterra personale è anti-militarista. Mentre George Bush combatté durante la seconda guerra mondiale, prestando servizio con onore; Bill Clinton evitò la propria chiamata alle armi e si comportò da traditore. Inoltre, l’attuale presidente è più conscio dei problemi concreti presenti nelle crisi internazionali di quanto non fosse George Bush; ma questa sua coscienza è incerta e fluttuante. Invia truppe e poi le ritira e, appena scorge una piccola opposizione – come è successo nel caso di Haiti –, richiama la flotta nei porti. Allo stesso modo, dopo molti pattugliamenti e molti massacri per le strade di Mogadiscio, gli Stati Uniti d’America hanno deciso di abbandonare la Somalia, come se ormai lì tutto andasse bene e ognuno fosse felice…
È chiaro che, per la questione della ex Jugoslavia, gli Stati Uniti d’America sono stati manovrati dall’esterno dall’alleato tedesco: se quest’ultimo ha certo qualcosa da guadagnare con un nuovo assetto nei Balcani, è difficile dire quali siano gl’interessi americani in quella regione. L’incertezza e la nostra politica ondeggiante sono responsabili di molti errori, oltre al fatto che non si è compresa la situazione: i dipartimenti per gli esteri e la CIA, la Central Intelligente Agency, non hanno molti esperti sui Balcani e pochi conoscono bene lingua, cultura e storia di quei luoghi. Quindi il risultato è stato una carente e cattiva informazione sulla guerra in atto. L’effetto di questa politica americana è stato spingere i serbi nelle braccia degli unici che li avrebbero accolti: i russi. Ora, i serbi sono stati, per tutto questo secolo, alleati storici degli Stati Uniti d’America. Addirittura quando Tito ruppe con l’Unione Sovietica, la Serbia non fece mistero del proprio filo-americanismo. Così, l’obiettivo per il quale gli Stati Uniti d’America hanno lavorato duro fin dagli anni Quaranta – ossia tenere i russi lontano dalla regione jugoslava – è svanito in breve tempo. Dobbiamo ringraziare George Bush e Bill Clinton per il re-ingresso dell’Armata Rossa nella regione jugoslava: Tito la tenne lontana, anche con il nostro sostegno, e oggi noi l’abbiamo richiamata…
L’unica persona che, negli Stati Uniti d’America, è stata capace di trarre questa conclusione è Patrick J. Buchanan che, abbondantemente filo-croato, ha altrettanto chiaramente compreso che la nostra politica sciocca e unilaterale avrà un solo effetto: confermare la crescente intesa serbo-russa, oltre a favorire, all’interno della stessa Russia, il rafforzarsi del nazionalismo di tipo panslavista. A mio giudizio, la nostra politica nei Balcani è un disastro completo, peggiore di qualunque gaffe politica alla quale abbia mai assistito.
D. Perché, di fronte a questa situazione, interna ed esterna, che perdura da decenni, la Destra conservatrice non ha saputo costruire una valida opposizione?
R. La politica americana è come una partita a scacchi. In questo gioco, chi controlla il centro della scacchiera vince. Le figure politiche e i pensatori americani cercano sempre di controllare il centro: il che significa che è sempre stato assai difficile costruire una coalizione fondata su principi chiari e forti, poiché – nella massa – molti sono i moderati e i tiepidi. Durante la Rivoluzione americana – il processo e la guerra per l’indipendenza –, a grandi linee, un terzo della popolazione ne sostenne la causa, un terzo l’avversò e un terzo scosse le spalle. Si dovette spingere quest’ultimo terzo ad abbracciare la causa della Rivoluzione, altrimenti essa non sarebbe avvenuta…
Il problema dei movimenti americani è che, non appena sembrano avere qualche successo, sognano di conquistare tutto il potere; e, per fare questo, devono rinunciare ai principi e ammorbidirsi. Questo vale per la Sinistra come per la Destra: è difficile trovare, nel mio paese, rivoluzionari di sinistra duri, in quanto questo spaventerebbe l’opinione pubblica. Nella Destra si è verificato l’ulteriore problema del compromesso con l’anticomunismo: parlo di compromesso perché l’anticomunismo è, di per sé, una forma di negativismo che indica a cosa ci si oppone, senza essere una filosofia o un programma politico positivo. La Destra americana, dal 1948 al 1988, ha, sostanzialmente, speso tutto il proprio tempo per contrastare l’Unione Sovietica e l’espansione del dominio comunista nel mondo; un’azione buona e doverosa, ma che l’ha spinta ad accogliere, per questa battaglia, qualsiasi tipo di alleato. Liberal, trotzkysti, revisionisti e qualsiasi altro genere di progressista e di uomo di sinistra che s’atteggiava ad anticomunista, venivano introdotti volentieri nella «coalizione conservatrice». A prima vista è stato un bene, ma tutto questo ha poi comportato l’impossibilità di criticare le politiche socialiste, alleate nella guerra contro l’Impero del Male. Negli anni Settanta e Ottanta, la massiccia defezione di intellettuali trotzkysti e sionisti dalla Sinistra – dovuta in gran parte agl’interessi dello Stato d’Israele, già oggetto di critiche di parte progressista, compresi molti ebrei americani –, spinse gli stessi intellettuali a dichiararsi conservatori: ovviamente, si tratta dei «neo-conservatori». Accolti senza riserve, hanno goduto di vasti consensi, perché occupavano le cattedre di prestigiose università o posti di rilievo nel mondo della stampa periodica anche se – per molti versi – non avevano mutato le proprie idee, ma solo alcuni approcci. Iniziarono a parlare come liberal-socialisti o liberal-democratici, piuttosto che come trotzkysti puri, ma in realtà non mutò nulla di fondamentale della loro formazione culturale. Fu, così, davvero impossibile costruire un movimento conservatore serio, che si basasse su principi e che potesse affrontare la Sinistra.
Il movimento conservatore si frantumò negli anni Ottanta; molte ricchezze e molto potere si trasferirono all’ala sinistra del movimento che, fra l’altro, venne salutata favorevolmente dalla Sinistra vera e propria. Quest’ultima si trova a proprio agio con quanti condividono certi suoi atteggiamenti culturali: insieme intessono «liti in famiglia» su Israele e altri temi, come quelli che avvengono fra pubblicazioni come Commentary, ebraica e neo-conservatrice, e The Nation, di sinistra. Ho conosciuto questo genere di persone, per anni, e, francamente, preferisco il vero comunista che dice apertamente ciò in cui crede e che opera per difenderlo…
Molti si domandano come si potrebbe abbattere il muro fra i neo-conservatori e la Old Right, la Vecchia Destra. Credo sia un errore terribile anche solo provarci: si possono formare coalizioni, basate sull’interesse reciproco, per qualsiasi scopo specifico, ma non vi è ragione per fondere identità culturali e politiche di due gruppi che, in sostanza, sostengono visioni del mondo contrapposte.
Sebbene alcuni conservatori vengano occasionalmente invitati alla televisione o a scrivere per The Washington Post o per The New York Times, generalmente non hanno accesso ai media e non hanno denaro sufficiente, né potere effettivo. Il grande dibattito, in corso attualmente negli Stati Uniti d’America, è fra la Sinistra estrema e la Sinistra centrista, fra coloro che si definiscono liberal – più o meno comunisti – e persone che si descrivono come conservatori, in realtà più o meno socialisti.
Circa i due terzi della popolazione è in sintonia con i principi espressi dalla cosiddetta Old Right e, se le cose venissero spiegate in termini adeguati, Patrick J. Buchanan sarebbe presidente degli Stati Uniti d’America.
a cura di Marco Respinti