Nota del primo maggio 2020.
L’emergenza coronavirus ha messo un po’ “in sordina” la “Festa dei lavoratori”: sono spariti i cortei dei “nostalgici della lotta di classe”, e le grandi schitarrate di piazza S. Giovanni a Roma sono state relegate in TV e sui social. Per festeggiare degnamente S. Giuseppe artigiano, riproponiamo un commento del Fondatore di Alleanza Cattolica all’enciclica Laborem exercens di S. Giovanni Paolo II.
Nello stesso numero di Cristianità sono commentati, sempre da Giovanni Cantoni, altri aspetti del documento.
Giovanni Cantoni, Cristianità n. 78-79 (1981)
Dopo la terza enciclica di Giovanni Paolo II
Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della «Laborem exercens»
III. L’ordine socio-etico del lavoro umano e la gerarchia dei valori
Il quadro di riferimento per la valutazione del lavoro umano tracciato sulla base della Genesi. Le relazioni con l’uomo stesso e con la famiglia, con la nazione e con tutta l’umanità, dei beni offerti dalla creazione e di quelli da essa ricavati, i mezzi di produzione e, quindi, il problema della loro proprietà.
Venendo all’esame degli elementi di contenuto del testo pontificio, si deve preventivamente sottolineare che, come è per altro ripetuto varie volte nell’enciclica stessa, il suo tema di fondo consiste in una riflessione e in un approfondimento della realtà e del concetto di lavoro umano. Questa riflessione e questo approfondimento si sviluppano da più fonti e cioè, anzitutto, «alla luce dell’esperienza storica» (n. 4); poi, attraverso «una convinzione dell’intelletto» (n. 4); quindi, «con l’aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica» (n. 4), cioè, ancora, di «tutto il patrimonio delle scienze, dedicate all’uomo» (n. 4); infine, ma «in primo luogo alla luce della parola rivelata del Dio vivente» (n. 4). Essi, dunque, si svolgono principalmente all’interno di una prospettiva scritturale, con particolare attenzione al libro della Genesi, dal momento che «quelle parole poste all’inizio della Bibbia, non cessano mai di essere attuali. Esse abbracciano ugualmente tutte le epoche passate della civiltà e dell’economia, come tutta la realtà contemporanea e le fasi future dello sviluppo» (n. 2).
1. Il significato della parola «lavoro»
Alla trattazione il Pontefice premette che «con la parola “lavoro” viene indicata ogni opera compiuta dall’uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l’uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità. Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso (cfr. Gen. 1, 26) nell’universo visibile, e in esso costituito perché dominasse la terra (cfr. Gen. 1. 28), l’uomo è perciò sin dall’inizio chiamato al lavoro. Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro: solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura» (premessa).
2. Il lavoro dell’uomo nel quadro della Genesi
La Chiesa, «riferendosi all’uomo, […] cerca di esprimere quei disegni eterni e quei destini trascendenti, che il Dio vivente, creatore e redentore, ha legato all’uomo.
«La Chiesa trova già nelle prime pagine del Libro della Genesi la fonte della sua convinzione che il lavoro costituisce una fondamentale dimensione dell’esistenza umana sulla terra. L’analisi di tali testi ci rende consapevoli del fatto che in essi […] sono state espresse le verità fondamentali intorno all’uomo, già nel contesto del mistero della Creazione. Sono queste le verità che decidono dell’uomo sin dall’inizio e che, al tempo stesso, tracciano le grandi linee della sua esistenza sulla terra, sia nello stato della giustizia originaria, sia anche dono la rottura, determinata dal peccato, dell’originaria alleanza del Creatore con il creato, nell’uomo. Quando questi, fatto “a immagine di Dio… maschio o femmina” (cfr. Gen. 1, 27), sente le parole: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gen. 1, 28) anche se queste parole non si riferiscono direttamente ed esplicitamente al lavoro, indirettamente già glielo indicano al di là di ogni dubbio come un’attività da svolgere nel mondo. Anzi, esse ne dimostrano la stessa essenza più profonda. L’uomo è immagine di Dio, tra l’altro, per il mandato ricevuto dal suo Creatore di soggiogare, di dominare la terra. Nell’adempimento di tale mandato, l’uomo, ogni essere umano, riflette l’azione stessa del Creatore dell’universo» (n. 4).
«Le parole “soggiogate la terra” hanno un’immensa portata. Esse indicano tutte le risorse che la terra (e indirettamente il mondo visibile) nasconde in sé, e che, mediante l’attività cosciente dell’uomo, possono essere scoperte e da lui opportunamente usate» (n. 4).
Inoltre, «se a volte si parla di periodi di “accelerazione” nella vita economica e nella civilizzazione dell’umanità o delle singole Nazioni, unendo queste “accelerazioni” al progresso della scienza e della tecnica e, specialmente, alle scoperte decisive per la vita socio-economica, si può dire al tempo stesso che nessuna di queste “accelerazioni” supera l’essenziale contenuto di ciò che è stato detto in quell’antichissimo testo biblico. Diventando – mediante il suo lavoro – sempre di più padrone della terra, e confermando – ancora mediante il lavoro – il suo dominio sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso ed in ogni fase di questo processo, rimane sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore, la quale resta necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l’uomo è stato creato, come maschio e femmina, “a immagine di Dio”. Questo processo è, al tempo stesso, universale: abbraccia tutti gli uomini, ogni generazione, ogni fase dello sviluppo economico e culturale, ed insieme è un processo che si attua in ogni uomo, in ogni consapevole soggetto umano. Tutti e ciascuno sono contemporaneamente da esso abbracciati. Tutti e ciascuno, in misura adeguata e in un numero incalcolabile di modi, prendono parte a questo gigantesco processo, mediante il quale l’uomo “soggioga la terra” col suo lavoro» (n. 4).
3. Il lavoro «in senso oggettivo» e la tecnica
Definito il lavoro e il suo significato universale – cioè indipendente da condizionamenti di tempo e di luogo – per l’uomo creato «a immagine di Dio», quindi nella prospettiva di una precisa antropologia teologica, il Papa passa a esaminarlo dal punto di vista oggettivo, così come «trova la sua espressione nelle varie epoche della cultura e della civiltà. L’uomo domina la terra già per il fatto che addomestica gli animali: allevandoli e ricavandone per sé il cibo e gli indumenti necessari, e per il fatto che può estrarre dalla terra e dal mare diverse risorse naturali. Molto di più, però, l’uomo “soggioga la terra”, quando comincia a coltivarla e successivamente rielabora i suoi prodotti, adattandoli alle proprie necessità. L’agricoltura costituisce così un campo primario dell’attività economica e un indispensabile fattore, mediante il lavoro umano, della produzione. L’industria, a sua volta, consisterà sempre nel coniugare le ricchezze della terra – sia le risorse vive della natura, sia i prodotti dell’agricoltura, sia le risorse minerarie o chimiche – ed il lavoro dell’uomo, il lavoro fisico come quello intellettuale. Ciò vale, in un certo senso, anche nel campo della cosiddetta industria dei servizi, e in quello della ricerca, pura o applicata» (n. 5). L’esame del «significato del lavoro in senso oggettivo» (n. 5) porta alla considerazione della tecnica: «intesa […] non come una capacità o una attitudine al lavoro, ma come un insieme di strumenti dei quali l’uomo si serve nel proprio lavoro, la tecnica è indubbiamente un’alleata dell’uomo. Essa gli facilita il lavoro, lo perfeziona, lo accelera e lo moltiplica. Essa favorisce l’aumento dei prodotti del lavoro, e di molti perfeziona anche la qualità. È un fatto, peraltro, che in alcuni casi la tecnica da alleata può anche trasformarsi quasi in avversaria dell’uomo, come quando la meccanizzazione del lavoro “soppianta” l’uomo, togliendogli ogni soddisfazione personale e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità; quando sottrae l’occupazione a molti lavoratori prima impiegati, o quando, mediante l’esaltazione della macchina, riduce l’uomo ad esserne il servo» (n. 5).
Perciò, «se le parole bibliche “soggiogate la terra”, rivolte all’uomo fin dall’inizio, vengono intese nel contesto dell’intera epoca moderna, industriale e post-industriale, allora indubbiamente esse racchiudono in sé anche un rapporto con la tecnica, con quel mondo di meccanismi e di macchine, che è il frutto del lavoro dell’intelletto umano e la conferma storica del dominio dell’uomo sulla natura» (n. 5), mondo la cui evidente ambiguità può essere giudicata e superata esclusivamente mettendo in risalto che, qualunque sia la portata e il significato storico della «terra» che l’uomo deve dominare, «il soggetto proprio del lavoro rimane l’uomo» (n. 5).
4. La dimensione soggettiva del lavoro umano
Il Papa passa quindi all’esame del «lavoro in senso soggettivo» (n. 6), sempre alla luce delle «parole del Libro della Genesi, alle quali ci riferiamo in questa nostra analisi» (n. 6). «L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come “immagine di Dio” è una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità» (n. 6).
«Questa verità […] costituisce in un certo senso lo stesso fondamentale e perenne midollo della dottrina cristiana sul lavoro umano» (n. 6): «il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per quanto sia una verità che l’uomo è destinato ed e chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”. Con questa conclusione si arriva giustamente a riconoscere la preminenza del significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo. Dato questo modo di intendere, e supponendo che vari lavori compiuti dagli uomini possano avere un maggiore o minore valore oggettivo, cerchiamo tuttavia di porre in evidenza che ognuno di essi si misura soprattutto con il metro della dignità del soggetto stesso del lavoro, cioè della persona, dell’uomo che lo compie. A sua volta, indipendentemente dal lavoro che ogni uomo compie, e supponendo che esso costituisca uno scopo – alle volte molto impegnativo – del suo operare, questo scopo non possiede un significato definitivo per se stesso. Difatti, in ultima analisi, lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il lavoro più “di servizio”, più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante – rimane sempre l’uomo stesso» (n. 6).
Dunque, «il lavoro è uno di questi aspetti, perenne e fondamentale, sempre attuale e tale da esigere costantemente una rinnovata attenzione e una decisa testimonianza» (n. 1), attraverso i quali ci si svela «tutta la ricchezza e al tempo stesso tutta la fatica dell’esistenza umana sulla terra» (n. 1). «Rimanendo ancora nella prospettiva dell’uomo come soggetto del lavoro» (n. 9); «tenendo sempre davanti agli occhi quella vocazione biblica a “soggiogare la terra” (cfr. Gen. 1, 28), nella quale si è espressa la volontà del Creatore» (n. 9), e ricordando che «il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”» (n. 6), è particolarmente importante notare che «la fondamentale e primordiale intenzione di Dio nei riguardi dell’uomo, che Egli “creò… a sua somiglianza, a sua immagine” (cfr. Gen. 1, 26 s.), non è stata ritrattata né cancellata neppure quando l’uomo, dopo aver infranto l’originaria alleanza con Dio, udì le parole: “Col sudore del tuo volto mangerai il pane” (Gen. 3, 19). Queste parole si riferiscono alla fatica a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano; però, non cambiano il fatto che esso è la via sulla quale l’uomo realizza il “dominio”, che gli è proprio, sul mondo visibile “soggiogando” la terra» (n. 9).
5. La fatica dopo il peccato originale
La fatica, cioè, è quanto si è aggiunto al lavoro post peccatum: «Il peccato invero ha reso penoso il lavoro della terra, ma non lo ha esso stesso introdotto nel mondo. Prima del peccato Dio aveva dato all’uomo la terra affinché la coltivasse, come la occupazione più bella e più onorevole nell’ordine naturale. Continuando l’opera di peccato dei nostri primi genitori, i peccati attuali di tutta l’umanità hanno fatto pesare sempre più la maledizione sulla terra» (1). Ma, se la fatica rende il lavoro un bonum arduum, «ciò non toglie che, come tale, esso sia un bene dell’uomo. Ed è non solo un bene “utile” o “da fruire”, ma un bene “degno”, cioè corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce […] un bene della sua umanità -, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”» (n. 9).
6. Le dimensioni familiare, nazionale e universale del lavoro
Dunque, «l’uomo deve lavorare sia per il fatto che il Creatore gliel’ha ordinato, sia per il fatto della sua stessa umanità, il cui mantenimento e sviluppo esigono il lavoro. L’uomo deve lavorare per riguardo al prossimo, specialmente per riguardo alla propria famiglia, ma anche alla società, alla quale appartiene, alla nazione, della quale è figlio o figlia, all’intera famiglia umana, di cui è membro, essendo erede del lavoro di generazioni e insieme coartefice del futuro di coloro che verranno dopo di lui nel succedersi della storia» (n. 16). Perciò, chiaramente esposta «la dimensione personale del lavoro umano, si deve poi arrivare al secondo cerchio di valori, che è ad esso necessariamente unito. Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo. […] Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poichè questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l’uomo acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno “diventa uomo”, fra l’altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo» (n. 10).
«Nell’insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l’ordine socio-etico del lavoro umano. […] Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo» (n. 10).
Dopo la persona e la famiglia, «il terzo cerchio di valori che emerge nella presente prospettiva – nella prospettiva del soggetto del lavoro – riguarda quella grande società, alla quale l’uomo appartiene in base a particolari legame culturali e storici. Tale società – anche quando non ha ancora assunto la forma matura di una nazione – è non soltanto la grande “educatrice” di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno assume nella famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la cultura di una data nazione), ma è anche una grande incarnazione storica e sociale del lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo» (n. 10).
7. La destinazione universale dei beni e la proprietà privata
Proseguendo nella esposizione «dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l’ordine socio-etico del lavoro umano» (n. 10), si deve notare che «col lavoro rimane pure legato sin dall’inizio il problema della proprietà» (n. 12). «Quando nel primo capitolo della Bibbia sentiamo che l’uomo deve soggiogare la terra, noi sappiamo che queste parole si riferiscono a tutte le risorse, che il mondo visibile racchiude in se, messe a disposizione dell’uomo. Tuttavia, tali risorse non possono servire all’uomo se non mediante il lavoro […]: infatti, per far servire a sé e agli altri le risorse nascoste nella natura, l’uomo ha come unico mezzo il suo lavoro. E per poter far fruttificare queste risorse per il tramite del suo lavoro, l’uomo si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze della natura: del sottosuolo, del mare, della terra, dello spazio. Di tutto questo egli si appropria facendone il suo banco di lavoro. Se ne appropria mediante il lavoro e per un ulteriore lavoro» (n. 12).
Ma «tutto lo sforzo conoscitivo, tendente a scoprire queste ricchezze, a individuare le varie possibilità della loro utilizzazione da parte dell’uomo e per l’uomo, ci rende consapevoli che tutto ciò che nell’intera opera di produzione economica proviene dall’uomo, sia il lavoro come pure l’insieme dei mezzi di produzione e la tecnica collegata con essi (cioè la capacità di adoperare questi mezzi nel lavoro), suppone queste ricchezze e risorse del mondo visibile, che l’uomo trova, ma non crea. Egli le trova, in un certo senso, già pronte, preparate per la scoperta conoscitiva e per la corretta utilizzazione nel processo produttivo. In ogni fase dello sviluppo del suo lavoro, l’uomo si trova di fronte al fatto della principale donazione da parte della “natura”, e cioè in definitiva da parte del Creatore. All’inizio del lavoro umano sta il mistero della creazione» (n. 12).
Si tratta, con ogni evidenza, di una «prima fase» (n. 12), che definisce «sempre la relazione dell’uomo con le risorse e con le ricchezze della natura» (n. 12).
In una seconda fase vengono in questione, «oltre che le risorse della natura messe a disposizione dell’uomo, anche quell’insieme di mezzi, mediante i quali l’uomo se ne appropria, trasformandole a misura delle sue necessità» (n. 12) e a questo proposito «si deve constatare che quell’insieme di mezzi è frutto del patrimonio storico del lavoro umano. Tutti i mezzi di produzione, dai più primitivi fino a quelli ultramoderni, è l’uomo che li ha gradualmente elaborati: l’esperienza e l’intelletto dell’uomo. In questo modo sono sorti non solo gli strumenti più semplici che servono alla coltivazione della terra, ma anche – con un adeguato progresso della scienza e della tecnica – quelli più moderni e complessi: le macchine, le fabbriche, i laboratori e i computers. Così, tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce – allo stato odierno della tecnica – il suo «strumento» sempre più perfezionato, è frutto del lavoro.
«Questo gigantesco e potente strumento – l’insieme dei mezzi di produzione, che sono considerati, in un certo senso, come sinonimo di “capitale” -, è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano» (n. 12), perciò «l’insieme degli strumenti, anche il più perfetto in se stesso, è solo ed esclusivamente strumento subordinato al lavoro dell’uomo» (n. 12).
8. La dipendenza da Dio e dagli uomini che hanno preparato il capitale
Sulla base di questo duplice esame «l’uomo, lavorando a qualsiasi banco di lavoro, sia esso relativamente primitivo oppure ultra-moderno, può rendersi conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè nel patrimonio di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste risorse, prima di tutto sviluppando la tecnica, cioè formando un insieme di strumenti di lavoro sempre più perfetti» (n. 13).
Il quadro sino a questo punto descritto costituisce indubbiamente «un’immagine coerente, teologica ed insieme umanistica. L’uomo è in essa il “padrone” delle creature, che sono messe a sua disposizione nel mondo visibile. Se nel processo del lavoro si scopre qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal Datore di tutte le risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da altri uomini, da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro. Di tutto ciò che nel processo di produzione costituisce un insieme di “cose”, degli strumenti, del capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro dell’uomo; non possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il “soggetto” anonimo che rende dipendente l’uomo e il suo lavoro» (n. 13).
Così, risulta evidente «la priorità del lavoro umano in rapporto a ciò che, col passar del tempo, si è abituati a chiamare “capitale”» (n. 12): infatti, «tutto ciò che è contenuto nel concetto di “capitale” – in senso ristretto – è solamente un insieme di cose. L’uomo come soggetto del lavoro, ed indipendentemente dal lavoro che compie, l’uomo, egli solo, è una persona» (n. 12).
«Prima di tutto, alla luce di questa verità, si vede chiaramente che non si può separare il “capitale” dal lavoro, e che in nessun modo si può contrapporre il lavoro al capitale né il capitale al lavoro, né ancora meno […] gli uomini concreti, che sono dietro a questi concetti, gli uni agli altri» (n. 13).
«L’antinomia tra lavoro e capitale non ha la sua sorgente nella struttura dello stesso processo di produzione, e neppure in quella del processo economico. In generale questo processo dimostra, infatti, la reciproca compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo abituati a chiamare il capitale; dimostra il loro legame indissolubile» (n. 13).
9. Priorità del lavoro umano sul capitale inteso «in senso ristretto»
Ancora, dunque, viene ribadito «il principio della priorità del “lavoro” nei confronti del “capitale”. Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il “capitale”. essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale» (n. 12); anzi, «il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale è un postulato appartenente all’ordine della morale sociale» (n. 15).
Dalla priorità dell’uomo sul lavoro discende, quindi, la priorità del lavoro sul capitale e si apre «il problema della proprietà» (n. 12), relativo «a tutte le risorse, che il mondo visibile racchiude in sé, messe a disposizione dell’uomo» (n. 12). E «la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro» (n. 14), e il diritto a essa relativo va «sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni» (n. 14), «principio fondamentale dell’ordine morale in questo campo» (n. 18), che si può esprimere «in un altro modo ancora più semplice» (n. 18) come «diritto alla vita ed alla sussistenza» (n. 18).
Ecco dunque tracciato «l’abbozzo della fondamentale problematica del lavoro» (n. 11): esso «come si riferisce ai primi testi biblici, così costituisce, in un certo senso, la stessa struttura portante della dottrina della Chiesa, che si mantiene immutata attraverso i secoli, nel contesto delle varie esperienze della storia […], sullo sfondo delle esperienze che hanno preceduto la pubblicazione dell’Enciclica Rerum Novarum e che l’hanno seguita» (n. 11), «ricordando almeno gli elementi fondamentali della dottrina della Chiesa intorno a questo tema» (n. 11).
Giovanni Cantoni
Note:
(1) PIO XII, Esortazione ai partecipanti al Congresso della Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti d’Italia, del 15-11-1946, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VIII, p. 305.