Di Caterina Giojelli da Tempi del 10/07/2019. Foto da articolo.
Mancano poche settimane: il prossimo 24 settembre la Corte costituzionale terrà una nuova udienza per decidere la legittimità costituzionale della norma del codice penale che punisce l’aiuto al suicidio (art. 580), poche settimane per legiferare sul fine vita nei termini previsti dall’ordinanza 207/2018 con cui la Consulta ha già indicato al Parlamento come modificare la disposizione impugnata. In caso contrario, sarà la Corte a decidere. Un iter curioso, quello cui è appeso il destino dell’ultima grande battaglia per opporsi o avallare la deriva eutanasica che ha preso piede nel resto d’Europa: originato dal caso Cappato-Dj Fabo e imposto da un organo la cui funzione dovrebbe essere sancire se una norma è costituzionale o no (non certo indicare percorsi e date al Parlamento), non abbiamo assistito a levate di scudi da parte delle Camere, né alle barricate attorno al “diritto a morire” che dieci anni fa portarono fino al conflitto istituzionale sul caso Englaro. Anche allora la Consulta chiese al Parlamento di fare una legge sul fine vita e il governo Berlusconi tentò di limitare i danni con la legge Calabrò, bloccata a un passo dall’approvazione finale “grazie” al governo Monti.
C’è chi non ci sta: a rompere il silenzio surreale che ha accompagnato il conto alla rovescia verso un esito che, salvo si arrivi a una legge entro i tempi stabiliti, potrebbe condurre alla legalizzazione di fatto del suicidio assistito nel nostro paese, c’è chi prende posizione. Giovedì 11 luglio a Roma numerose associazioni consapevoli della posta in gioco hanno promosso l’incontro “Diritto o condanna a morire per vite inutili?”, relatori Alfredo Mantovano e Assuntina Morresi. A Mantovano, magistrato e vicepresidente del Centro Studi Livatino, Tempi ha chiesto di chiarire i problemi posti dall’ordinanza della Corte Costituzionale che, invece che di poche righe, impiega pagine e pagine per sostenere che la norma penale impugnata qualche ragione l’avrà pure, ma comunque va rivista.
«Anche i non addetti ai lavori sanno che se una disposizione vigente è ritenuta incostituzionale, la Consulta la dichiara illegittima; se è invece ravvisata in linea con la Costituzione la questione sollevata viene rigettata; vi è perfino la cosiddetta sentenza interpretativa di rigetto che, mantenendo in piedi la norma impugnata, ne orienta l’esegesi al fine di non dichiararla illegittima. Nel caso dell’aiuto del suicidio, invece, la Corte ha scelto una quarta strada: ha motivato in larga parte una pronuncia di illegittimità salvo poi non pervenire alla declaratoria di incostituzionalità e assegnare al Parlamento il compito di varare una legge che recepisca le proprie indicazioni. È la prima volta che accade nella storia della Corte costituzionale».
I
giudici pretendono una legge che tuteli situazioni come quelle di
Cappato e Dj Fabo, altrimenti ci penseranno loro e la “colpa” sarà del
Parlamento. Ma come argomentano questa decisione che appare pilatesca?
Guardiamo
alla sostanza: c’è un’oggettiva incoerenza fra la prima e la seconda
parte della motivazione dell’ordinanza. Nella prima parte è scritto nero
su bianco che «l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al
suicidio» è «funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto
delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende
proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del
suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare
le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per
scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il
gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di
ogni genere». Si aggiunge che il divieto ha evidente ragion d’essere
«anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate,
depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le
quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente
dalla vita», e che «al legislatore penale non può ritenersi inibito,
dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in
nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le
condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso,
simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica
porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in
simili situazioni di fragilità, rimuovendo, in tal modo, gli ostacoli
che impediscano il pieno sviluppo della persona umana». Ebbene: trovo
difficile, alla stregua della chiarezza di queste affermazioni,
conciliarne il contenuto con la seconda parte delle motivazioni, dove si
legge che «una disciplina delle condizioni di attuazione della
decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non
solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto
dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la
somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte,
potrebbe essere introdotta».
Una contraddizione così palese può essere ignorata?
No,
il Parlamento è chiamato a una scelta netta: o la solidarietà nei
confronti di chi si trova in una condizione di debolezza, e ha necessità
del sostegno per affrontare quella situazione (assistenza domiciliare,
hospice, cure palliative), oppure l’aiuto a trovare la morte. Sia la
Corte costituzionale che più d’una delle proposte di legge presentate
pongono in correlazione l’autodeterminazione del paziente con la dignità
umana: al paragrafo 9 dell’ordinanza si sostiene che la limitazione
della prima comporterebbe una lesione della seconda. Ora,
l’autodeterminazione è importante, ma non è senza limiti: i limiti sono
identificabili nel rispetto dell’altro e nella natura non disponibile
del bene (banalmente, un lavoratore non può autodeterminarsi nemmeno sul
godimento delle ferie che è obbligatorio). Non è così per la dignità
dell’uomo: essa non ha né limiti né condizioni. Nemmeno il condannato
per i crimini più orrendi perde la dignità di uomo (art. 27 della
Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»):
essa sopravvive perfino alla morte e fonda la pietas che riserviamo ai
nostri defunti. Il Parlamento intende approvare una legge che introduca
il suicidio medicalizzato nel Servizio sanitario nazionale? Non lo
faccia in nome della dignità del paziente, ma di una autodeterminazione
spinta all’estremo. E sarà interessante capire come Camera e Senato
affronteranno il tema sottolineato dalla stessa Corte costituzionale,
che ha comunque messo in guardia sul fatto che l’autodeterminazione nei
casi di persone con gravi patologie è fortemente condizionata da
situazione di debolezza. Capite bene che nel caso io acquisti un
appartamento in condizioni di volontà indebolita e condizionata, posso
impugnare e risolvere il contratto di compravendita, mentre un atto che
determina la cessazione della vita è immediatamente operativo.
Tutta questa fregola di normare la morte in nome del diritto all’autodeterminazione dove porta?
Se
l’autodeterminazione sarà il punto di partenza, il punto di arrivo,
come insegnano le esperienze di altre nazioni, sarà la tenuta del
welfare. In Belgio e in Olanda da tempo si registrano interventi
eutanasici praticati a prescindere dal consenso, sulla base di giudizi
personali da parte dei medici relativi alla sofferenza presunta di chi
non può dare il suo consenso, e di scelte di priorità del Ssn nel
trattamento dei pazienti e nell’allocazione delle risorse. Alfie Evans
non aveva espresso alcuna volontà eutanasica o suicidiaria, e i suoi
genitori, legittimati più di altri a interloquire sulla sua sorte,
avevano chiesto la possibilità di curarlo, anche a loro spese, anche in
un altro Paese. Sappiamo come è andata a finire. Non so se tranquillizzi
la prospettiva che un giudice decida della vita o della morte di una
persona per esigenze di bilancio.
Lei come pensa che il Parlamento debba rispondere alle sollecitazioni della Consulta?
Intanto
penso che le Camere avrebbero dovuto rivendicare fin da subito le
prerogative del Parlamento. Per dire, in sostanza, ognuno faccia il suo:
se le Camere finora non hanno modificato l’articolo 580 del codice
penale non dipende necessariamente da noncuranza, può anche essere
dipeso dalla condivisione di quella disposizione. E comunque ogni
cambiamento avviene nei tempi individuati dalla discrezionalità del
Parlamento, non in quelli imposti da altri. Una tale presa di posizione
avrebbe aperto una dialettica non da poco sui limiti dell’intervento
della Consulta e sul ruolo delle Camere. Tuttavia questa levata di scudi
non c’è stata e si è optato per il percorso della risposta legislativa.
Che fare quindi? La Corte sollecita a considerare situazioni come
quella di Dj Fabo, «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma
incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa
dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di
strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse,
ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali». Questo
potrebbe tradursi nella distinzione fra la posizione di chi non ha alcun
legame col paziente e coloro che invece da più tempo soffrono col
paziente perché gli sono vicini. La posizione del convivente, familiare
in senso formale oppure no, è evidentemente diversa da quella di altri, e
tollera un trattamento distinto e una sanzione meno grave, pur
mantenendosi il giudizio negativo dell’ordinamento.
In
pratica integrare l’articolo 580 del Codice penale con un comma ad hoc
per il processo Cappato-Fabo e simili, mitigando, senza eliminarla, la
pena per l’aiuto al suicidio quando esso viene realizzato da chi
condivide la sofferenza del paziente?
Non per il processo
Cappato, ma in termini generali. È la stessa Consulta che nell’ordinanza
ricorda che il fatto che «l’ordinamento non sanzioni chi abbia tentato
di porre fine alla propria vita non rende affatto incoerente la scelta
di punire chi cooperi materialmente alla dissoluzione della vita altrui,
coadiuvando il suicida nell’attuazione del suo proposito. Condotta,
questa, che – diversamente dalla prima – fuoriesce dalla sfera personale
di chi la compie, innescando una relatio ad alteros di fronte alla
quale viene in rilievo, nella sua pienezza, l’esigenza di rispetto del
bene della vita». Alla stregua di tali premesse, potrebbe ipotizzarsi
una forma attenuata del reato punito dall’articolo 580 individuando
quale soggetto attivo chi conviva stabilmente con il malato, precisando
tipologie di condizioni che tendono meno grave l’illecito, a cominciare
dal grave turbamento determinato dalla sofferenza altrui che interessa
l’autore del fatto. Spero che questo dato di realtà sia ben
presente a tutti: da sempre nel nostro ordinamento provocare la morte a
una persona è sanzionato in modo differente a seconda di contesti
oggettivi. Nessuno ha mai posto obiezioni – né ha evocato la morale –
per il fatto che l’infanticidio o l’omicidio del consenziente siano
puniti in modo meno grave rispetto all’omicidio: forse che la vittima
dell’infanticidio o l’omicidio del consenziente sia meno essere umano?
Assolutamente no, sono diverse le circostanze concrete. Va aggiunto che
la Corte conclude che dovrebbe essere valutata «l’esigenza di adottare
opportune cautele affinché – anche nell’applicazione pratica della
futura disciplina – l’opzione della somministrazione di farmaci in grado
di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non
comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle
strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete
possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione
profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza (…). Il
coinvolgimento in un percorso di cure palliative dovrebbe costituire,
infatti, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi
percorso alternativo da parte del paziente». In altre parole: la nuova
disciplina dovrebbe rendere effettivo il ricorso alle cure palliative,
come è già previsto dall’articolo 2 della legge n. 219/2017 e come è
richiesto dalla Consulta, con la presa in carico del paziente da parte
del Servizio sanitario nazionale al fine di praticare un’appropriata
terapia del dolore.
Cosa
risponde a chi obietta che le cure palliative esistono da quasi un
decennio e non hanno risparmiato casi di pazienti con sofferenze
intollerabili?
Questa obiezione non tiene conto che la legge
n. 38/2010 è stata poco sostenuta finanziariamente, e ancor di meno
applicata: manca allo stato la prova di ciò che accada qualora una seria
e diffusa terapia del dolore costituisca la risposta a tante
sofferenze. Se la causa della disperazione è l’intollerabilità del
dolore, il piano di intervento non è l’uccisione di un essere umano ma è
lo sforzo di lenire quel dolore, per quanto possibile; la legge n.
38/2010 va in questa direzione: va applicata, recuperando risorse e
professionalità adeguate.
Una legge come quella suggerita rappresenterebbe una risposta coerente all’ordinanza incoerente della Consulta?
Sarebbe
una risposta in linea col carattere generale e astratto proprio della
legge. Sorprende che l’ordinanza dedichi uno spazio ampio e dettagliato
al caso drammatico che ha originato la questione di legittimità,
auspicandone una soluzione: una norma non è un abito costruito su
misura. È un’illusione pensare che l’articolo di una legge, per quanto
ben scritto, riesca a prevedere la molteplicità delle fattispecie che la
realtà ogni giorno prospetta. È una illusione in sé, lo è per la
materia della quale ci occupiamo: che non ha come soggetti soltanto da
un lato il Parlamento, e dall’altro il paziente affetto da gravi
patologie. Di mezzo c’è il medico, ci sono la sua professionalità, la
sua coscienza, il suo codice deontologico. Se proprio va male e si
attiva un contenzioso, c’è pure il giudice. La norma si inserisce in una
realtà che la interpreta e la applica, non va in automatico. Spero che
il Parlamento, che ha avuto il merito nelle ultime settimane di fare
molte audizioni, risolva le anomalie di una vicenda che va riportata
alla linearità del fondamenti della Costituzione.