di Stefano Chiappalone
«La natura è cultura»: è questo uno di quegli aforismi tanto brevi quanto densi che Giovanni Cantoni, il fondatore e ora reggente emerito di Alleanza Cattolica, “distillava” a braccio, nel corso di una conferenza o nelle feconde pause di un convegno o di un ritiro. Frasi apparentemente ovvie, riguardanti realtà talmente ovvie e pertanto dimenticate, da aver bisogno, per potercene ricordare, di questo fiero discepolo del signore di La Palice (1470-1525). Nella mentalità comune, nonché in certo ecologismo ideologico, uomo e natura sono considerati due poli opposti: l’immersione nella natura è intesa frequentemente come rifiuto della civiltà e quest’ultima soltanto come sfruttamento e abbrutimento.
Eppure, campi, colline e paesaggi, così come si presentano a noi, non sono stati modellati per secoli da mani di giardinieri e agricoltori? E i mari sono forse indifferenti all’opera di chi li ha navigati, talora temuti, così come le selve e le montagne, per generazioni luoghi di approvvigionamento, di rifugio, ma anche dell’ignoto?
A propria volta, borghi e città non sarebbero gli stessi se fossero sorti su un terreno diverso, ad altitudini differenti, in un clima freddo oppure caldo, nordico oppure mediterraneo. Gli uni e gli altri si influenzano a vicenda.
Il filosofo britannico Sir Roger Scruton considera l’esempio il paesaggio inglese, che «[…]dipende costantemente dall’opera degli uomini, per la disposizione dei campi, dei boschi cedui e dei terreni coperti, come per le siepi di arbusti e i muretti visibili ovunque, che sono parte integrante dell’armonia percepita» (La bellezza. Ragione ed esperienza estetica, trad. it. Vita e Pensiero, Milano 2011, p. 64). E stupisce ancora di più osservando che «[…]alcuni fra i più bei cavalli o tulipani sono il prodotto di interventi consapevoli protratti nel corso dei secoli» (ibidem).
Questo non significa, naturalmente, che l’uomo abbia programmaticamente disegnato il paesaggio come se fosse un’opera d’arte. Implica però che, quando ammiriamo la natura “incontaminata”, tanta bellezza è debitrice, in misura variabile e con variabile consapevolezza, anche dell’attività umana che non va denigrata, semmai educata.
Nell’era della schizofrenia tra informi agglomerati cementizi e improbabili fughe nella “natura”, occorre ricordare che l’uomo e il paesaggio non sono in conflitto, ma in un dialogo plurimillenario che solo da alcuni decenni è degenerato, in assenza di uno sguardo realistico e insieme grato e contemplativo sulla creazione. Di cui, non lo dimentichiamo, è parte l’essere umano stesso.
Sabato, 13 luglio 2019