di Leonardo Gallotta
Entrati nella nube buia e fumosa della terza cornice del Purgatorio, dove ci si purifica dal peccato d’ira, Dante (Alighieri, 1265-1321) e Virgilio (P. Virgilio Marone, 70 a.C.-19 d.C.) incontrano un personaggio – è il canto XVI – che dice di sé: «Lombardo fui e fu’ chiamato Marco; / del mondo seppi e quel valore amai / al quale ha or ciascun disteso l’arco» (vv. 46-48).
A questa figura, per nulla rilevata biograficamente, Dante pone una domanda importante: perché la società è così decaduta da essere ormai priva di ogni virtù? Marco Lombardo risponde che spesso si dà la colpa agli influssi degli astri, ma ciò non è vero perché in tal modo sarebbe distrutto il libero arbitrio. La causa vera del traviamento del mondo è infatti da ricercarsi proprio negli uomini – soprattutto di potere – che corrono dietro a interessi particolari e a soddisfazioni meschine, da cui la necessità di un «rege», cioè di un imperatore, che possa porre un freno alla «mala condotta» dei vari governanti. È a questo punto che Marco espone la teoria dei “due soli” già presente nel De monarchia dantesco: Papato e impero, istituzioni di diritto divino, hanno finalità diverse: spirituali il primo, politiche il secondo. Due poteri autonomi e distinti, ma che dovrebbero collaborare. L’umanità potrebbe così uscire dal degrado in cui è caduta se il Papato non avesse tuttavia voluto “spegnere” il secondo sole producendo solamente guasti.
A questo proposito, un fatto storico va tenuto presente: Papa Bonifacio VIII (1230 ca.-1303) aveva fatto proprie le tesi teocratiche dei curialisti del secolo XIII, secondo cui, in vacanza dell’impero, spettava alla Chiesa assumerne le funzioni. Con le parole messe in bocca a Lombardo, Dante dà una risposta diretta e precisa all’atteggiamento del Pontefice che, con la bolla Unam Sanctam del 1302, aveva solennemente sancito la legittimità di congiungere la spada con il pastorale, anche se con questa commistione forzata la Chiesa di Roma era caduta nel fango, sporcando sia sé stessa sia l’impero.
Il canto XVI si chiude con la citazione di tre personaggi ancora vivi ed esponenti del mondo cortese così apprezzato e vissuto da Marco: Corrado da Palazzo, che fu podestà a Firenze nel 1277, Gherardo da Camino, signore di Treviso alla fine del Duecento, e Guido da Castello, esule da Reggio a Verona presso gli Scaligeri e probabilmente conosciuto personalmente da Dante.
Tuttavia la descrizione della terza cornice non finisce qui. Se gli esempi di virtù esaltata erano stati posti all’inizio del canto XV, gli esempi di ira punita si trovano addirittura agli inizi del XVII.
Dante ha tre visioni estatiche. La prima si riferisce alla storia di Progne, che, per vendicarsi del tradimento del marito con la di lei sorella, gli offrì in pasto le carni del figlio. La seconda si incentra sul biblico Aman, che fu crocifisso dal re persiano Assuero, da lui precedentemente istigato a uccidere tutti i Giudei. L’ultima visione è tratta dall’Eneide, laddove Lavinia piange sulla madre che si è uccisa perché non voleva che la figlia sposasse il re troiano.
Dopo le tre visioni, Dante è investito dalla luce improvvisa di un angelo che lo avvia alla cornice superiore.
Marco Lombardo merita però qualche considerazione ulteriore. Non se ne hanno notizie biografiche documentate. Anzitutto l’aggettivo che lo connota fa riferimento all’ampio territorio con cui nel Medioevo veniva indicata la Lombardia, comprendente cioè anche l’Emilia e il Veneto attuali. Perché Dante sceglie proprio lui?
Secondo i novellisti e i cronachisti del tempo, Marco era un uomo di corte ghibellino con doti tali che lo si poteva apparentare ai cavalieri del passato: saggio, altero, generoso e spesso “morditore” dei potenti. Nel Novellino (LV) ‒ una raccolta di novelle toscane risalente all’ultimo ventennio del Duecento ‒ è definito «lo più savio uomo di tutta Italia». Altre sue doti riferite sono la prontezza nelle risposte, il disinteresse pecuniario e la liberalità, l’indipendenza di fronte ai potenti, la povertà dignitosa. Non è un caso che compaia proprio nel canto XVI, che si trova al centro della struttura dell’intero poema dantesco, composta da 100 canti (34 canti dell’Inferno più 16 del Purgatorio fanno 50, appunto la metà esatta), né si può dimenticare che la teoria dei “due soli” (nel De monarchia) è la teoria politica di Dante stesso, che in tutta la Commedia dà un’importanza straordinaria ai rapporti numerici e alla collocazione, nel poema, di episodi strategici.
Certo i dati relativi alla personalità di Marco Lombardo rivelano caratteristiche simili a quello che dovette essere anche Dante come uomo di corte negli anni dell’esilio, senza contare che simile era il rimpianto per l’età in cui vigevano valore e cortesia. Che Marco sia un alter ego di Dante alcuni lo negano, ma gli indizi sono veramente tanti e di peso.
Sabato, 20 luglio 2019