Danièle e Pierre de Villemarest, Cristianità n. 245 (1995)
Diversamente da quanto sostenuto dai mass media, la situazione nella ex Jugoslavia non è determinata da ragioni religiose né da nazionalismi esasperati, ma da un «passato comunista che non vuole passare», al quale si è affiancata una spirale di regolamenti di conti e di rivalità personali tra capi militari. E la speranza di una soluzione sta nel comportamento equilibrato della capo della Repubblica Croata, Franjo Tudjman, dopo la riconquista dei territori croati della Slavonia occidentale nell’agosto del 1995.
L’ex Jugoslavia fra pacificazione e guerra generalizzata
Nel maggio del 1995 un’offensiva lampo ha permesso alle forze della Repubblica Croata di riconquistare i duecento chilometri di territorio che erano suoi, prima del 1991, nella Slavonia occidentale. Essa prefigurava l’operazione maggiore realizzata all’inizio di agosto nella Krajina. Anche in questi territori l’esercito serbo della Repubblica Federale di Jugoslavia si era insediato nel 1991, quando era guidato da ottanta generali che, di fronte all’«ondata d’isteria anticomunista» a loro avviso scatenatasi in Occidente, proclamavano di voler imporre la legge del marxismo-leninismo… Avevano scacciato centinaia di migliaia di croati e di bosniaci, poi avevano fatto occupare le loro case da famiglie serbe.
Quattro anni dopo, la maggioranza dei commentatori europei ha dimenticato questo esodo… Stranamente — almeno in Francia — nessuno vuole analizzare il «caso jugoslavo» spassionatamente, alla luce dei soli fatti evidenti, appurati. Alcuni fanno ricorso ai ricordi della prima guerra mondiale, come se i serbi del 1995 fossero gli stessi; come se, dopo il 1944, il comunismo non avesse formato numerose generazioni.
Come François Mitterrand e come la propaganda russa, evocano i massacri commessi dagli ustascia croati, come se tutti i croati fossero stati ustascia, mentre migliaia di loro hanno combattuto l’occupazione tedesca. A imitazione della mentalità di una certa diaspora ebraica, non si dovrebbe mai dimenticare né perdonare. Secondo questa permanente legge del taglione, i francesi, i belgi, gli olandesi che hanno subito l’occupazione tedesca, le deportazioni e la prigionia, dovrebbero dichiarare guerra alla Germania e uccidere, per vendicare i propri morti della prima e della seconda guerra mondiale.
Prima di abbozzare un quadro della situazione della ex Jugoslavia dilaniata, è indispensabile precisare alcuni punti.
Si tratta veramente — come pretendono taluni, che dipingono il quadro tutto in bianco da una parte e tutto in nero dall’altra — di una lotta fra cristiani e musulmani? È uno schema semplicistico. Esso nasconde il fatto che il 18% dei combattenti dell’esercito croato — cioè circa ventimila uomini — costituito da serbi; che, per contro, nel corso degli ultimi due anni almeno dodicimila musulmani bosniaci hanno scelto di combattere a fianco dei serbi; che il colonnello Jovan Djivak, difensore di Sarajevo, è un serbo, che si batte contro i serbi comunisti. I suoi genitori, durante la seconda guerra mondiale, hanno militato nella resistenza antinazista. Egli non nasconde la propria vergogna di aver atteso il 1980 per rompere con quelli di Belgrado. Uno dei suoi figli ha sposato una croata, un altro una musulmana.
Jovan Djivak è l’esempio di migliaia di famiglie di religioni diverse, che vivevano in buon accordo fino a quando il Manifesto della Lega marxista-leninista dell’esercito jugoslavo ha deciso, cinque anni fa, che bisognava conservare con la forza la Federazione creata daTito. Infatti, in questo documento, redatto nel gennaio del 1991 e fatto circolare ufficiosamente con le firme di duecento ufficiali superiori, di cui ottanta generali, si poteva leggere: «Il socialismo non è morto […]. Pur pagando un prezzo elevato, la Jugoslavia è riuscita a superare i primi colpi dell’ondata d’isteria anticomunista. L’esercito deve essere presente come istituzione nelle discussioni sull’avvenire del paese […]. Devono essere fatti tutti gli sforzi perché la Lega dei Comunisti-Movimento per la Jugoslavia, a cui appartengono gli ufficiali superiori, divenga, entro cinque anni, la maggior forza politica del paese…». La sua realizzazione — il cui nome in codice suonava RAM — poteva contare su settantasettemila militari membri della Lega dei Comunisti — il partito comunista jugoslavo —, fra cui circa novemila non serbi, poi esclusi da questa formazione politica; e il suo scopo consisteva nel dare «scacco matto» alla Croazia e nel mantenere la Bosnia, il Kosovo e la Vojvodina nel girone serbo-comunista. L’operazione è fallita in Slovenia e in Croazia, ma è stata imposta nella Krajina, che circonda come un semicerchio la Bosnia, quella Bosnia di cui si dimentica che è stata riconosciuta dall’organizzazione della Nazioni Unite, quindi alla quale la stessa ONU doveva una protezione che non è stata assicurata neppure un momento dopo che i serbi della Krajina hanno deciso, benché minoritari e spesso occupanti da poco tempo, di costituirsi in territori indipendenti, legati alla Repubblica Federale di Jugoslavia.
La fine dell’equivoco serbo-comunista
Quando il professor Paul Garde spiega da esperto che la riconquista croata era un diritto e anche un dovere e, in ultima istanza, una necessità, si comporta da estremista, da partigiano fanatico dei croati? Nessuna zona di sicurezza — nel 1993 l’ONU ne ha create sei- è stata protetta, contrariamente agli impegni presi da diversi generali della UNPROFOR, la Forza di Protezione dell’ONU. E non è neppure riuscito nessun negoziato tentato dai croati.
Le lacrime degli intellettuali, le lamentele dei governi europei hanno incoraggiato i serbo-comunisti, travestiti da nazionalisti, poi da ferventi ortodossi, a perseverare in una «pulizia etnica», della quale non si finisce più di scoprire i massacri. Certo, in tutti i campi sono stati perpetrati orrori, ma a partire da quando?
È stata la Repubblica Croata, dopo il 1990, a entrare in guerra con i serbi della Repubblica Federale di Jugoslavia? È stata la Repubblica di Bosnia ed Erzegovina? Per contro, abbiamo visto il russo Vladimir Wolfovic Zinovskij — il cui vero nome è Edelstein e che è noto come degno corrispondente del KGB, quando le circostanze lo permettono —rendere omaggio al coraggio e all’audacia degli occupanti serbi della Krajina… Abbiamo visto il patriarca ortodosso russo Alexis — di cui tutti sanno che faceva l’agente del KGB sotto Nikita Sergeevic Kruscev, Leonid Ilic Breznev e Michail Sergeevic Gorbaciov — «benedire» la conquista dei territori non serbi.
La Repubblica Ellenica, la Repubblica di Bulgaria — attualmente legata da accordi stipulati con il GRU, il servizio segreto militare della Federazione Russa, e con il «nuovo» KGB — e la Romania
alimentano con petrolio e con armi l’esercito della Repubblica Federale di Jugoslavia.
Cattolici minacciati dai musulmani? Circa trecento sacerdoti francescani, che reggevano settanta parrocchie in territorio musulmano, testimoniano oggi che vi vivevano in pace, rispettati dagli «altri», e che truppe serbe, giunte per occupare la Krajina, hanno ucciso senza processo molti di questi francescani, hanno picchiato e anche torturato i loro parenti.
D’altronde, l’equivoco si scioglie a poco a poco. I sostenitori dei serbo-comunisti che, di fronte alle prove, continuano a ignorarle deliberatamente, nascondono che la maggioranza del popolo serbo era, e resta, avverso a questa guerra. Ma essa, per dirlo, non ha a propria disposizione né radio né televisione; e i giornali sono tutti sotto il controllo di Slobodan Milosevic e del suo entourage, escluso Vreme — quarantamila copie soltanto, per mancanza di carta, i cui redattori sono perseguitati, minacciati di morte, talora uccisi «per caso»…
Vi sono circa sei milioni di serbi, circa cinque milioni di croati, più di quattro milioni di bosniaci, di cui solo il 39% è musulmano. Dov’è il pericolo? Per chi sarebbe il pericolo, finché il mondo intero ha osservatori su piazza? È venuta l’ora di porre fine ai regolamenti di conti e alle rivalità personali di capi militari, che hanno preso l’abitudine di uccidere per dominare, come piccoli boss su piccoli territori.
Franjo Tudjman, Slobodan Milosevic e i mondialisti
Franjo Tudjman è diventato generale a quarant’anni. Era nelle file dei partigiani titini durante la guerra, ma, dal 1967, è stato espulso dal partito e degradato, per anticomunismo, alla condizione di archivista. Incarcerato nel 1972 per due anni, è poi stato rimesso in prigione per tre anni nel 1981, per le stesse ragioni. Riconosciuto come capo dello Stato croato nel 1990, non solo dalla Repubblica Federale di Germania, ma anche dalla Comunità Economica Europea e dall’ONU, è criticato per ragioni diverse da quelle addotte dai suoi detrattori. Infatti ha avuto l’audacia, dopo aver scartabellato gli archivi jugoslavi, di scrivere che il numero delle vittime degli ustascia durante l’occupazione tedesca, indicato dai titini, non era esatto ed era esagerato, compreso quello degli ebrei. In un certo senso un revisionista, dunque un mostro.
Relativamente a Franjo Tudjman si possono presentare due rischi: che non sappia controllare la propria vittoria nella riconquista della Krajina e cerchi altre conquiste territoriali, quindi che offra ragioni alle reazioni dei serbi; che, invece di rispettare gli accordi presi con il presidente bosniaco Alija Itzetbegovic — il solo capo di Stato ex jugoslavo che non sia mai stato comunista —, si colleghi di nuovo a Slobodan Milosevic e riprenda un piano di spartizione fra la Repubblica Federale di Jugoslavia e e la Repubblica Croata, cancellando in questo modo dalla carta geografica la Repubblica di Bosnia ed Erzegovina.
Altro timore è che Slobodan Milosevic, marxista mascherato — sua moglie Marjana è ancora oggi docente nella formazione dei quadri del partito comunista —, per evitare di essere allontanato dal potere, intenda prendere la rivincita sulla Croazia, con il proprio esercito serbo-comunista. Nel qual caso, si profilerebbe una guerra generalizzata.
Nell’ombra, i governanti di Mosca stendono la propria «protezione» su Slobodan Milosevic, uscito dalle scuderie marxiste. La Federazione Russa vedrebbe certo di buon occhio l’ipotesi di beneficiare di basi amiche sulle coste e nei territori serbi. Certi mondialisti non vi si opporrebbero se, con il pretesto di garantire la pace, una sorta di condominio americano-russo gestisse un apparente statu quo. L’Europa manca di una politica coerente, la metà dei suoi governanti — compresi quelli francesi — sono solamente agenti del mondialismo.
Gli avvenimenti che si produrranno inevitabilmente nelle prossime settimane saranno altamente significativi.
Danièle e Pierre de Villemarest