Di Alfredo Mantovano da Tempi di settembre 2019. Foto redazionale
Nella vulgata, per la realtà ecclesiale italiana l’immigrazione è (quasi) esclusivamente accoglienza, letta come una necessità caritatevole inderogabile, alla stregua dell’evangelico “bussate e vi sarà aperto”, e dell’identificazione fra il migrante e il nuovo povero. I media di area criticano lo sforzo di regolamentare gli ingressi con norme più stringenti, e le politiche di contenimento degli arrivi opponendo, in modo spesso aprioristica, l’eliminazione di qualsiasi freno all’ingresso. La preoccupazione per la sorte del singolo migrante in difficoltà, se non in pericolo, subisce un effetto transfert sul fenomeno nel suo insieme: non ci si limita a dire “è arrivato a pochi metri dalla riva, raccogliamolo prima che affoghi” – che è il minimo del buon senso -, ma si teorizza che tutti debbano poter partire a giungere a destinazione.
Eppure nel Magistero e nella tradizione della Chiesa la cura e la pastorale dei migranti occupano un posto non banale. Intanto il Magistero ha più volte esortato, nel rispetto della dignità di ogni persona, a non sovrapporre — per quanto possibile — le differenti figure del migrante e del rifugiato. Di ritorno dal viaggio in Svezia, colloquiando con i giornalisti sul volo Malmö-Roma il 1° novembre 2016, Papa Francesco ricordava che «si deve distinguere tra migrante e rifugiato. Il migrante dev’essere trattato con certe regole perché migrare è un diritto ma è un diritto molto regolato. Invece, essere rifugiato viene da una situazione di guerra, di angoscia, di fame, di una situazione terribile e lo status di rifugiato ha bisogno di più cura, di più lavoro».
Nelle sue parole non solo non vi era apertura indiscriminata, ma vi era pure l’esigenza che, una volta accolto il profugo, vi sia uno sforzo serio teso alla sua integrazione: «Credo che in teoria — aggiungeva il Pontefice nella stessa occasione — non si possa chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti […] di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più». La prudenza diventa così il faro per orientare su questo terreno; la prudenza, sottolinea il Papa, non la paura. Quest’ultima è «[…] il più cattivo consigliere per i Paesi che tendono a chiudere le frontiere». Come esempio concreto di «prudenza», ripartendo da uno Stato da sempre fra i primi nell’accoglienza dei rifugiati, Papa Francesco citava «un funzionario del governo svedese» che gli aveva descritto «[…] qualche difficoltà perché vengono tanti che non si fa a tempo a sistemarli, trovare scuola, casa, lavoro, far imparare la lingua. La prudenza deve fare questo calcolo. […] io non credo che se la Svezia diminuisce la sua capacità di accoglienza — così concludeva il Pontefice — lo faccia per egoismo o perché ha perso quella capacità; se c’è qualcosa del genere è per quest’ultima cosa che ho detto: oggi tanti guardano alla Svezia perché ne conoscono l’accoglienza, ma per sistemarli non c’è il tempo necessario per tutti».
Per la realtà ecclesiale italiana il costo di una posizione coincidente con l’accoglienza senza limiti e con la demonizzazione – al posto dello sforzo di comprensione – della paura è pesante. E’ far mancare al dibattito il contributo di riflessione proveniente dalla Dottrina sociale cristiana; è accontentarsi di banalizzare un fenomeno complesso, riducendolo alla versione contemporanea di Lazzaro che bussa invano alla mensa del ricco epulone; è ridursi a una megaonlus che garantisce servizi; è sottrarsi a recitare una parte più incisiva di integrazione culturale, e di ciò che è necessario perché essa si realizzi (il lavoro, la lingua, il rispetto dell’essenziale); è rinunciare a quell’orientamento del quale vi è necessità quanto per l’accoglienza materiale; è condannarsi all’irrilevanza, come accade sempre di fronte a posizioni generiche e approssimative.
Al di là della visione d’insieme del fenomeno – che non può mancare alla comunità cattolica nazionale -, lo stesso Magistero, mentre esorta a prestare attenzione ai bisogni materiali, invita a non dimenticare altre esigenze. Uno dei profili più significativi della tragedia di chi fugge da persecuzioni e da guerre è costituito dalle famiglie che si ritrovano dimezzate o diminuite nel numero dei propri componenti a seguito delle morti per atrocità nei luoghi d’origine o durante la fuga; che si dividono, pur se desiderano stare insieme, alcuni rimanendo nella zona di provenienza; che si lacerano talora per la materiale impossibilità di continuare a convivere, poiché violenza e persecuzione abitano nella famiglia di origine, per esempio con l’imposizione di un matrimonio non voluto o di pratiche religiose ostili alla più elementare dignità umana; che hanno difficoltà, una volta raggiunte terre più tranquille, a mantenere quella pratica religiosa e quello stile di vita che seguivano prima delle persecuzioni o delle guerre.
Le varie realtà ecclesiali, se ancora sopravvivono nei luoghi nei quali si combatte e dai quali si fugge — quasi sempre restano fino all’ultimo — sono fra le più capaci di tenere vivi questi legami, mentre le realtà ecclesiali operanti in Occidente possono concorrere a far ritrovare gruppi familiari dispersi. A fianco di ciò vi è l’esigenza di sostenere moralmente e spiritualmente chi ha vissuto e vive una esperienza così carica di sofferenza. Compete anzitutto ai cristiani di qui e alle nostre comunità farsi carico di questa situazione: il lavoro è in qualche modo più agevole se il migrante proviene da aree cristiane; se viene da altre zone, la proposta — non certo l’imposizione — della speranza fondata su Cristo farà guardare al futuro in modo diverso e positivo. E’ assurdo immaginarlo, o abbiamo ancora il complesso da colonizzazione, che fa evitare rigorosamente qualsiasi riferimento religioso con chi è giunto da noi?
Da ultimo. Giunte in Europa, le famiglie dei migranti s’imbattono in leggi e in costumi antitetici ai loro, impregnate di laicismo e di libertarismo: se lasciano una persecuzione cruenta e materiale, rischiano d’imbattersi in una persecuzione incruenta e ideologica. Una pastorale diffusa e omogenea per questa fascia di persone, che cresce di numero e che mostra necessità anche in senso lato culturali e spirituali, è indilazionabile. Il lavoro è grande, anche solo dal punto di vista pastorale: sarebbe un peccato non svilupparlo al pieno delle potenzialità della comunità ecclesiale nazionale proseguendo su una strada più ideologica che di adesione alla realtà.