di Valter Maccantelli
L’attacco agli impianti petroliferi sauditi di Abqaiq, il più grande impianto di stabilizzazione del greggio al mondo, e di Hijra Khurais, dove vengono prodotti 1,5 milioni di barili al giorno, avvenuto lo scorso 14 settembre e rivendicato dalle milizie filoiraniane yemenite Houthi, è oramai un fatto noto: si tratta, secondo Bloomberg, del più grande danno causato nella storia da un singolo evento al mercato petrolifero mondiale. In altri tempi le conseguenze sarebbero state epocali: in questi giorni, invece, al di là della retorica roboante dei comunicati, sembra di leggere la cronaca di una delle tante scaramucce mediorientali.
L’azione ha causato la perdita provvisoria del 5 % della produzione mondiale di greggio (il 50 % di quella saudita). La rotta di avvicinamento dei velivoli autori del raid è sembrata provenire più dall’Iran ‒ che ha smentito categoricamente il proprio coinvolgimento ‒ che dallo Yemen. I danni ammontano a decine miliardi di dollari e le riparazioni richiederanno mesi. Secondo le logiche in vigore fino a non molto tempo fa, ce ne sarebbe stato per una guerra nel Golfo Persico ‒ o almeno per una pesante ritorsione militare che, al momento, sembra esclusa ‒, accompagnata da una crisi mondiale del mercato del greggio e da un revival delle “domeniche a piedi” degli anni 1970.
Al contrario, tutti gli attori coinvolti sembrano voler minimizzare l’accaduto e sono piuttosto restii ad alzare i toni. L’Amministrazione statunitense, che rimarca ogni giorno le prove della regia iraniana, si dichiara pronta alla guerra, ma il presidente Donald J. Trump afferma pure di preferire il dialogo. La monarchia saudita, che da sempre vede nel regime degli ayatollah il competitor geopolitico regionale e il nemico intraislamico plurisecolare, pur mostrando rottami di missili e droni di provenienza iraniana sul sito delle esplosioni, parla di “sponsorizzazione” da parte di Teheran e non di coinvolgimento diretto. Il governo statunitense si è subito impegnato a calmierare le tensioni sul mercato del greggio, accedendo alle proprie scorte strategiche, delle quali è peraltro gelosissimo.
Come mai questo evento specifico sembra non rispondere alle logiche che hanno caratterizzato per decenni la politica del Medioriente? Ci si potrebbe anche cullare nella convinzione che un nuovo senso di pace e di responsabilità stia permeando la geopolitica del pianeta, ma si mancherebbe di realismo. In eventi di questo tipo è bene del resto lasciare passare qualche giorno per vedere dove conduce la traccia di briciole dei vantaggi e degli svantaggi diretti e indiretti che ne derivano. Quindi a chi giova?E, soprattutto, a chi nuoce?
In primo luogo, a chi giova e a chi nuoce un rialzo significativo, non drammatico e comunque gestibile, del prezzo del greggio? Giova certamente all’economia statunitense, oramai divenuta esportatrice netta, e nuoce a quella cinese, famelica di energia sotto tutte le forme. Giova anche ai governanti sauditi ed iraniani, che con il prezzo basso del barile non riescono a sostenere oltre il proprio welfare ‒ a 5 stelle quello saudita e senza stelle quello iraniano ‒, ma, per contro, nuoce agli Stati europei, totalmente dipendenti dagli approvvigionamenti esteri e ostacolati in tutti i modi nell’incremento dell’interscambio energetico con la Russia.
L’inimicizia tra Stati Uniti e Iran è pluridecennale, profonda e, al netto del pragmatismo d’obbligo nelle relazioni internazionali, anche sincera, ma un nemico, specialmente se decisamente inferiore e finanziariamente giugulato, fa comodo a tutti. La minaccia iraniana permette agli Stati Uniti di legare a sé sempre più strettamente i propri alleati tradizionali nella regione, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, e punire quelli riottosi come la Turchia, desiderosa di spartirsi la Siria con Russia e Iran a danno di Washington e dei suoi alleati kurdi. En passant giova ‒ e non poco ‒ anche al premier israeliano Benjamin Netanyahu che in questi giorni si gioca l’osso del collo nelle ennesime elezioni-referendum sulla sua leadership che ha oramai superato in durata quella dello stesso Ben Gurion (1886-1973).
Se queste possono essere considerate ipotesi, un dato difficilmente contestabile è la sconfitta personale del principe ereditario saudita, il giovane Mohammed bin Salman. Dopo il suo insediamento in tutte le posizioni chiave del regno degli al-Saud, pressato dai problemi di sostenibilità a breve e medio termine del fiabesco (in tutti i sensi) bilancio nazionale, ha innescato un processo di riforma del meccanismo di spartizione della rendita petrolifera che ha lasciato molto amaro in bocca ai tradizionali centri del potere saudita. La dieta feroce (a volte mortale) imposta alla corrotta clientela reale, la contrazione dei privilegi dell’apparato educativo religioso a vantaggio di quello tecnologico e militare, la volontà di quotare in borsa ‒ e quindi rendere più trasparente ‒ la società petrolifera nazionale ARAMCO, considerata per decenni un’inesauribile dispensatrice di rendite benevole per i sodali degli al-Saud, gli hanno procurato una lunga serie di nemici interni.
Fino a ora il principe ha goduto della protezione del padre, Salman bin Abdelaziz, vecchio e malato, ma saldamente in carica. C’è però anche il rovescio della medaglia: la permanenza al potere del genitore, se da un lato gli ha permesso la rapida scalata al potere, dall’altro gli impedisce di salire definitivamente al trono e lascia formalmente aperta la corsa alla successione. Una corsa che fino a pochi mesi fa tutti, lui compreso, davano per scontata e che oggi lo appare invece molto meno.
Sotto la sua guida il regno ha ingigantito il bilancio della difesa, a scapito della spesa “sociale”, fino a diventare il terzo acquirente mondiale di armamenti (68 miliardi di dollari nel 2017, ben più della temuta Russia).
A fronte di questi costi gli è difficile spiegare come la guerra in Yemen, da lui dichiarata e sempre sostenuta, sia bloccata sul campo da 4 anni, fra inenarrabili massacri di civili e bombardamenti indiscriminati, senza che il terzo esercito più costoso del mondo riesca ad avere ragione di un gruppo di ribelli pur sostenuto dall’Iran.
Rende anche difficile spiegare come quello che è probabilmente il più sofisticato sistema radaristico del mondo dopo quello statunitense, si sia visto sfilare sotto il naso almeno 17 droni, o missili che fossero, diretti verso la sua più importante e vitale area economica del Paese per colpire a morte proprio quegli asset petroliferi che l’Arabia Saudita si accinge a mettere sul mercato, mettendone così a nudo la vulnerabilità.
Se a questo si aggiungono i danni di immagine causati dalle ripercussioni internazionali dell’omicidio Jamal Khashoggi (1958-2018), che viene oramai pacificamente ricondotto alla sua volontà, alla definitiva rottura delle relazioni di cortesia con il vicino Oman e al fallimento evidente del tentativo di isolare il Qatar, che continua a sopravvivere più che decorosamente dopo anni di embargo saudita, si vede come il carniere di successi del Principe sia, almeno agli occhi dei suoi avversari, decisamente scarso e forse insufficiente a supportare la sua pretesa di guidare il Regno nel futuro.
Paradossalmente il quadro sembra essere troppo articolato e l’intreccio di interessi opposti troppo fitto per lasciare spazio a uno scenario di guerra “classica”. Dal mantenimento del caotico status quo tutti hanno qualcosa da perdere e qualcosa da guadagnare e pensano di poter migliorare la propria posizione giocando la partita a scacchi anziché a pugni. L’assenza della guerra “guerreggiata” è senza dubbio un fatto positivo, l’importante è non confonderla con la pace.
Venerdì, 19 settembre 2019