di Francesca Morselli
È sempre interessante spendere un giorno (o due, vista la quantità di opere proposte) alla Biennale d’arte contemporanea di Venezia. La mostra offre infatti uno sguardo sulle tendenze e sulle idee degli artisti di tutto il mondo o, meglio, sul pensiero che li accomuna. A parte casi isolati, non vi sono più opere pittoriche e scultoree. Al loto posto regnano infatti incontrastati video, installazioni e performance.
Il tema quest’anno è May you live in interesting times (“Che tu possa vivere in tempi interessanti”). All’inaugurazione, il curatore della mostra, Ralph Rugoff, dice: «[…] la Mostra si proporrà di sottolineare l’idea che il significato delle opere d’arte non risiede tanto negli oggetti quanto nelle conversazioni […] ciò che più conta in una mostra non è quello che viene esposto, ma come il pubblico possa poi servirsi dell’esperienza della mostra per guardare alla realtà quotidiana da punti di vista più ampi e con nuove energie. Una mostra dovrebbe aprire gli occhi delle persone a modi inesplorati di essere al mondo, cambiando così la loro visione di quel mondo”. Un linguaggio oggettivamente difficile, dunque, fatto di personaggi al limite del reale e fuori dalla consuetudine (così il padiglione belga), un futuro apocalittico sospeso tra uomini-cloni, intelligenze aumentate, cyber-spazio incontaminato e uova giganti da cui fare rinascere l’uomo (così i padiglioni di Danimarca, Svezia, Giappone), e altro ancora. Scenari sicuramente sconfortanti, insomma, sottolineati dal tema della evanescenza del ricordo di un mondo migliore passato nell’attesa di qualcosa che forse avverrà.
Solo pochi autori prendono in considerazione un possibile aldilà in cui sperare. Il padiglione della Russia, per esempio, è dedicato al Vangelo secondo san Luca e alla Parabola del figliol prodigo. Presenta un’istallazione del regista Alexander Sokurovl’ che ripropone l’opera dipinta dal maestro fiammingo Rembrandt (1606-1669), appunto Il ritorno del figliol prodigo, del 1668, assieme alla sala dell’Ermitage di San Pietroburgo dove il quadro è esposto, attraverso uno spazio ricreato che si affaccia sui tumulti e sulle guerre che sconvolgono il mondo moderno. Lo stesso quadro di Rembrandt poi, nella sala successiva, prende vita attraverso sculture che ripropongono i personaggi del dipinto collocati davanti a uno specchio in modo che, entrando nella sala e rifrangendosi, il visitatore venga coinvolto dall’abbraccio del padre con il figlio, in un’unione simbolica che parla di redenzione globale.
Un’altra artista che esplora la fine del mondo è Alexandra Briker, la quale propone, nelle sale dello spazio Arsenale, ESKALATION (2016): un’installazione dinamica, viscerale e apocalittica che espone una possibile visione della fine dell’umanità dove gli uomini cercano di salire per mezzo di una scala che porta all’infinito, anche se molti cadono, destinati all’inferno. Si tratta di una grande visione di giudizio universale fatta di manichini in lattice nero ed emblematiche scale di legno appese al soffitto.
Dietro a questi nuovi linguaggi, dunque, il tema della ricerca umana sul senso della vita e la speranza di qualcosa che vada oltre la dimensione esclusivamente terrena, anche se certo in maniera criptica, è riproposto da molti artisti, anche se solo pochi si aprono alla possibilità di una redenzione. In definitiva la Biennale apre gli occhi, come sempre, sull’unica possibilità di salvezza per l’uomo: quella che avviene nelle braccia di Dio, dopo mondi altri e apocalissi.
Sabato, 26 ottobre 2019